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Synecdoche, New York

Regia di Charlie Kaufman vedi scheda film

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La recensione su Synecdoche, New York

di laulilla
7 stelle

Il titolo fa riferimento alla sineddoche, ovvero al “procedimento linguistico espressivo... che consiste nel trasferimento di significato da una parola a un’altra in base a una relazione di contiguità intesa come maggiore o minore estensione, usando per es. il nome della parte per quello del tutto o viceversa (cit. dal vocabolario Treccani)

 

Il film è stato girato a a Schenectady, una piccola città dello stato di Newyork, il cui nome, derivato dalla lingua mohawk (un linguaggio irochese), significa luogo al di là dei pini, che nella pronuncia inglese ricorda la pronuncia inglese di ”sineddoche”. (Schenectady è il titolo di un altro film, che in italiano è diventato Come un tuono).

 

E’ difficile sottrarsi all’impressione che se quell’immenso attore che è stato Philip Seymour Hoffmann non fosse morto, nel modo tragico che sappiamo, questo film, in Italia non sarebbe probabilmente mai arrivato. Si tratta, infatti, di un film del 2008, selezionato per il Festival di Cannes di quell’anno e successivamente presentato ad altre prestigiose manifestazioni internazionali, del quale, fino al 2014 si era persa ogni traccia nel nostro paese!

Come quasi sempre accade se il regista o lo sceneggiatore è Charlie Kaufman, il film non segue alcuna diacronia: si sviluppa, infatti, grazie agli accostamenti analogici che si formano nella mente ossessiva del protagonista, Caden Cotard (Philip Seymour Hoffmann), che, dopo aver ottenuto un importante riconoscimento per il suo lavoro di regista teatrale, vorrebbe allestire il suo prossimo spettacolo rappresentando se stesso e l’evolvere della sua vita infelice. Sta attraversando, purtroppo, un momento assai critico della propria esistenza: la moglie, pittrice, si è allontanata alla volta di Berlino, portando con sé l’amata figlioletta e provocandogli una sofferenza dolorosissima senza conforto possibile, ciò che gli preclude, di fatto, sereni e appaganti rapporti con altre donne che pure non gli mancherebbero. Caden è poi da tempo  preoccupato per se stesso e per le proprie condizioni di salute: vede con orrore che a poco a poco il suo corpo si deteriora, si sente malato ed è continuamente ossessionato dalla convinzione della propria morte imminente, né riceve le rassicurazioni che vorrebbe sentire dai medici che lo hanno in cura.

 

Nella sua decisione di diventare il principale personaggio del suo nuovo spettacolo è presente anche la speranza di ottenere, attraverso l’arte (il teatro), quelle risposte e quella verità che né la scienza né la vita riescono a fornirgli.

L’idea che lo muove, però, pone alcuni problemi di difficilissima soluzione, in primo luogo perché l’arte – verità richiede il continuo mutare degli interpreti che, dovendo rispecchiare fedelmente la vita del personaggio, devono seguirne sia i mutamenti nel tempo, sia l’estendersi delle relazioni interpersonali; in secondo luogo perché l’unica e definitiva risposta possibile non potrà che arrivare con la fine dello spettacolo e perciò con la morte del personaggio–autore, nel quale viene perciò, in modo sineddotico, rappresentata la verità della vita di tutti.


Tutto il film è dunque una riflessione sul non senso della vita e perciò sulla morte, incubo onnipresente e concluso con l’agghiacciante e poetica scena finale della città di Schenectady priva di vita, come i corpi che dappertutto giacciono sulle strade che furono, un tempo, lo scenario nel quale si svolse la loro esistenza. Onnipresente, per tutta la durata del film, la riflessione sull’arte, sul suo significato e sui modi possibili della rappresentazione teatrale, con ampie citazioni da Beckett, a Pirandello a Pinter e ad altri autori del teatro moderno e contemporaneo.

Come si vede, una vicenda complicata, ma recitata con grande intelligenza e grande cuore da Philip Seymour Hoffmann, sulla cui eccezionale e versatile bravura si regge quasi per intero il film, che seguendo gli ansiogeni percorsi della mente di Caden Cotard e cercando di rivolgersi alla ragione più che ai sentimenti dello spettatore, non manca di di suscitare, talvolta, qualche emozione profonda.

 

 

 

 

 

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