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Synecdoche, New York

Regia di Charlie Kaufman vedi scheda film

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La recensione su Synecdoche, New York

di deepsurfing
8 stelle

 

In uno dei suoi racconti, Borges narra di antichi cartografi che a forza di migliorare la mappa dello stato ne fecero una che “aveva l'immensità dell'impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le generazioni seguenti, meno portate allo studio della cartografia, pensarono che questa mappa enorme era inutile e non senza empietà la abbandonarono alle inclemenze del sole e degli inverni. Nei deserti dell'ovest sopravvivono lacerate rovine della mappa, abitate da animali e mendichi”.

La storia raccontata da Kaufman assomiglia alla parabola di Borges, perché il protagonista, un regista teatrale, ha un'idea dell'arte analoga al perfezionismo dei cartografi imperiali: un'arte che per essere vera e grande non può accontentarsi di essere mimesis della vita, deve trasformarsi essa stessa in vita. Ma la sineddoche che finisce col coincidere col tutto di cui è parte, diventa inutile e va in malora.

Caden, il registra teatrale (interpretato con grande intensità da Philip Seymour Hoffman) è sposato con una pittrice d'avanguardia. Sono entrambi quarantenni con una figlia piccola. Caden è triste, depresso, insicuro; ha strani sintomi, una malattia misteriosa e inquietante. Lei è molto più sicura e il rapporto con Caden le va stretto. Infatti parte con la figlia e l'amica per una mostra in Germania e sparisce dalla vita di Caden; la quale scivola in una china sempre più deprimente, fatta di dolorosa solitudine, goffi tentativi di riallacciare rapporti affettivi con altre donne, malanni psicofisici, allucinazioni o sogni (mostrati senza soluzione di continuità con gli eventi reali). Eppure professionalmente il successo gli arride: vince un prestigioso e ricco premio teatrale che gli permette di finanziare il suo nuovo lavoro: sarà una grande opera corale, profondamente personale (la moglie gli aveva rinfacciato di non esserlo abbastanza). Da questo momento il film diventa un intreccio sempre più indefinito e caotico di vita, allucinazioni (o forse elementi metaforici resi realisticamente) e messa in scena. L'opera di Caden diventa infatti un delirio iperrealistico in cui gli attori devono recitare gli aspetti più intimi e dolorosi delle loro esistenze, raddoppiando se stessi sulla scena, e, nel caso dello stesso regista, di sua moglie e della sua essistente, facendosi rappresentare da altri attori che diventano alter ego più veri degli originali. Una produzione colossale, che dura anni e decenni, che ricostruisce un'intero quartiere, con vite che si intrecciano, persone che invecchiano, storie e drammi personali che entrano ed escono dalla rappresentazione: un'impresa interminabile e assurda che sa molto di Kafka (non a caso citato da un personaggio del film). La progressiva, e sempre più angosciante, mise an abyme finisce con una pirandelliana inversione dei ruoli (il personaggio che diventa autore e l'autore che diventa personaggio) e nella desolazione della mappa-territorio in rovina.

Kaufman ama la mise en abyme, l'autoreferenzialità, la coscienza e i suoi paradossi (gli “strange loops”, come li chiama Hofstadter); e ha saputo usare questi concetti così cerebrali per costruire delle sceneggiature stralunate e affascinanti come Essere John Malkovic, Ladro di orchidee, Se mi lasci ti cancello, nelle quali piacere del racconto, arguzia intellettuale, pathos psicologico e invenzione visiva si amalgamavano in mix brillanti e avvincenti. In questo film, sua prima regia, ciò che viene a mancare è proprio la brillantezza, la leggerenza del gioco intellettuale e della sua trasposizione visivo-narrativa, soffocata da un eccesso di dramma esistenziale, cupo e opprimente.

Kaufman aveva già messo in scena l'empasse creativo dell'artista nel Ladro d'orchidee, storia di un sceneggiatore che tenta disperatamente di scrivere una scenografia assurda che coincide proprio col film. Lo sceneggiatore era lui, sdoppiato in due gemelli: quello intelligente, autore rinomato ma cerebrale, imbranato, pieno di dubbi; e quello un po' scemo, bon viveur e inconsapevole maestro del “keep it simple”. Ed era grazie ai suggerimenti del secondo che la cerebralità della storia si caricava di banali, improbabili ma umanissimi climax emotivi, che la facevano funzionare.

Ecco, in Synecdoche New York è come se avesse deciso di sopprimere il secondo gemello. Rimane l'altro: il personaggio debole, depresso, piagnucoloso, incasinatissimo nella vita eppure fermamente intenzionato a portare a termine la sua grande opera d'arte.

Forse Kaufman si è fatto prendere la mano dalla profondità dei suoi temi e ha perso la leggerezza: il mito romantico dell'artista che trasforma la sua vita in opera d'arte; la colpa metafisica di Kafka; l'utopia velleitaria della non-rappresentazione già magistralmente raccontata nel Capolavoro sconosciuto di Balzac; il dramma di un cercatore d'affetto, come siamo tutti, che usa l'arte come surrogato all'incapacità di vivere...

Applicando a Synecdoche, New York, il gioco metalinguistico che tanto piace al suo autore, direi che questa volta il film finisce per somigliare all'enorme scenografia in rovina fatta costruire da Caden.

 

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