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Revolutionary Road

Regia di Sam Mendes vedi scheda film

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La recensione su Revolutionary Road

di spopola
8 stelle

Mendes utilizza la recitazione dei propri interpreti per restituire tutta la tensione e il peso delle parole di Yates… ed è su questo versante che raggiunge risultati davvero strabilianti per incisività e potenza grazie all’autorevolezza evocativa degli sguardi, dei volti, dei corpi, di tutto ciò che viene definito “comunicazione non verbale”.

Prima di passare all’analisi e al commento del film, consentitemi una riflessione a latere: vorrei che qualcuno mi aiutasse a comprendere come mai certi registi, certi nomi che hanno avuto il privilegio di arrivare a conseguire riconoscimenti importanti anche come “qualità dei premi” ricevuti praticamente al loro “debutto” ufficiale, potremmo dire con la loro “opera prima”, sono poi fatti oggetto di “strali” così distruttivi (persino dispregiativi oserei dire) e sproporzionati, assolutamente ingiustificati, che pretenderebbero di metterne in discussione tutto il loro successivo percorso. Astio? invidia? presupponenza? Chissà… le ipotesi potrebbero essere infinite.. resta il fatto in ogni caso che alla base c’è indubbiamente (e indiscutibilmente) poca “onestà intellettuale” e un fastidiosissimo alone di “partito preso” che non è mai produttivo, anzi!!. Questo, per dire che il giochetto sporco si sta ripetendo inevitabilmente “analogo e conforme” anche con Sam Mendes e il suo straordinario (sotto molti punti di vista) “Revolutionary Road” e la cosa mi sorprende davvero non poco, perché io francamente non ci ho trovato niente di così “disastrosamente” inaccettabile e incongruo nel suo modo di rappresentare la storia, da metterlo alla gogna come si sta facendo in molti santuari della critica ufficiale. Se qualche marginale ipotesi di “ruffianeria” poteva essere intravista, ciò riguardava semmai la costruzione e il modo in cui era condotto il percorso di American Beauty… (un’opera alquanto “furbetta”, ma di tutto rispetto comunque, capace di ammaliare al primo impatto, ma di far emergere attraverso una rilettura meditata e attenta, una ambiguità di fondo e uno studiato “calcolo” fatto a tavolino che ne diminuiscono fortemente la portata critica, annacquandone il senso, poichè costituiscono il limite un po’ supponente di un “disegno” non perfettamente a fuoco, ma i cui contorni sono stati in ogni caso “riprodotti” con in dubbia maestria)… poteva suscitare qualche perplessità la disinvolta arroganza un po’ tracotante non solo “citazionista” dell’incipit “quasi fotocopia” (Kubrick e il suo “Full Metal Jacket) di “Jarhed”, anche per un problema oggettivo di “lesa maestà”. Quindi probabilmente legittime alcune osservazioni “ridimensionanti” per ciò che aveva fatto subito dopo (comprensibile che l’ubriacatura per un successo così planetario come quello del suo esordio porti a qualche “sbavatura” di troppo) ma non certo per questa sua ultima opera che è ad oggi la prova più impegnativa e riuscita del suo lavoro di “raccontatore” per immagini, e non riesco a trovare motivazioni che possano giustificare il livore (permettetemi di utilizzare questo termine indubbiamente a sua volta un po’ estremizzato) di dichiarazioni così ostili e definitive come quelle che lo hanno accolto, come, per citare solo alcuni esempi: “Forse” (la materia, il romanzo, gli interpreti, la musica,gli altri ingredienti insomma di cui è composta una pellicola cinematografica) “meritava un film più bello” e ancora “trasforma l’autore in uno spietato entomologo da suburbio” che detto così mi sembra tutto l’opposto di un complimento (Mario Sesti – Film Tv) ; “Uguale, dietro la macchina da presa, anche l’occhio supponente” e “i suoi film sono morti in partenza” (Giulia D’Agnolo Vallan – Ciak). Caspiterina! Così inappellabili (e ovviamente poi non sono stati i soli) da togliere la voglia anche al più disponibile spettatore di andare a sprecare il proprio tempo dietro a siffatta “nefandezza”… manco si trattasse dello sconsiderato e spocchioso epigono di uno Zalman King qualunque (ovviamente con tutto il rispetto per la riconosciuta insipienza di quest’ultimo). Fuorvianti e pretestuose, allora perché disertando al sala si perderebbe invece un’occasione importante per emozionarsi, meditare e riflettere, poiché (comunque la si pensi) ci si trova in ogni caso di fronte a un' opera di tutto rispetto, che merita attenzione e considerazione… sissignori!!! Anche sotto il profilo della regia!. Voglio aggiungere anche che la mia non è una difesa “a prescindere”, poiché vi assicuro che Mendes non rientra fra le mie più sfegatate preferenze…(non ne ho nessuna che davvero possa rientrare in una classificazione così assolutista). Dal mio punto di vista poi, conoscendo bene il romanzo, anche se letto in tempi lontani (era stato pubblicato da Garzanti credo verso la metà degli anni sessanta con il titolo improprio de “I non conformisti”, diventando da subito certamente un oggetto di culto, ma per una ristrettissima cerchia di lettori, non avendo mai raggiunto in quegli anni una diffusione e una notorietà – un “successo” e un “riconoscimento” - pari al suo valore) se avessi dovuto immaginare una riduzione in immagini di una siffatta materia incandescente, avrei ipotizzato probabilmente un percorso molto diverso e a sua volta più “infuocato” di quello scelto dal regista… Ma poiché quel che contano sono i risultati, posso dire che ho trovato straordinariamente pertinente la maniera con la quale Mendes appunto illustra il suo viaggio, orientando il suo lavoro molto di più sulla capacità evocativa della recitazione che su invenzioni di linguaggio (io la interpreto come una “scelta”, non un ripiego o una “incapacità” strutturale), centrando comunque ugualmente il suo obiettivo con un risultato “poeticamente” avvolgente che affascina e coinvolge, ci fa “palpitare” e commuovere (ma senza farci dimenticare il “punto di vista emblematicamente critico” dello scrittore). La delicatezza di tocco è persino esemplare (come vogliamo considerare il trattamento “sfumato”, senza scivolate grandguignolesche che "raffreddano" ma non raggelano la materia rovente e tragica che conclude il percorso “disgregato” di queste “scene da un matrimonio” condotte davvero come una danza di morte di strindberghiana memoria? C'è qui in effetti un assoluto e necessario “distacco emotivo” che fa meglio comprendere la . Se avesse voluto “strafare” ,qui ci sarebbe stato molto pane per i suoi denti. Invece il pudore “empatico” che traspare, ci fa avvertire lo strazio degli a accadimenti (persino la loro consapevole “inevitabilità”), senza sottolineare l'"effetto", rimane on sordina, ma non minimalizza per questo, né trascura o rende meno evidenti, le ipocrisie del perbenismo di facciata che stanno alla base, e sono poi anche le ragioni profonde del disadattamento sconfortato che determina una resa così terribilmente inappellabile. Ci fa infatti soffermare “sulla soglia”, non indulge in compiacimenti cruenti: “percepiamo” ma, “visivamente parlando”, non “partecipiamo” davvero e fino in fondo alla mattanza (si fa per dire ovviamente), "comprendiamo intuendo" grazie alla forza dei gesti e delle imamgini, e questo è un pregio indiscutibile che rende vigore e sostanza a tutta la materia trattata.
Se non altro poi, il film rappresenta l’occasione per far riemergere dall’oblio questo immenso autore, visto che il romanzo rieditato da Minimum faxt e finalmente con l’esatto titolo, è di nuovo negli scaffali delle librerie, accessibile a tutti(quello della Garzanti poteva ormai essere “scovato” con non poche difficoltà in qualche recesso nascosto delle trattative on-line di e.bay). Richard Yates (1926-1992) di fatto è a mio avviso uno degli autori più importanti e corrosivi della letteratura americana del secolo scorso, probabilmente colui che precede e anticipa la visione “feroce” che caratterizza per esempio il crudo realismo di un Raymond Carven, tanto per citare un nome specifico fra quelli che mi sembra gli si apparentino più direttamente per “affinità” e intenti . Poter di nuovo disporre del piacere di riappropriarcene, è un piacere e un vantaggio innegabile. Ma arriviamo dunque adesso direttamente e meglio al film (perché è poi di questo che dobbiamo parlare). Un progetto molto complesso e ambizioso (non a caso ci avevano provato in molti e per lungo tempo, senza mai portare a termine l’impresa, però) che il regista ha realizzato con “ossequiosa” riverenza innamorata (è riuscito infatti incredibilmente - e magicamente, direi - a rimanere fedele al romanzo, non solo per la storia, ma anche per il contesto, cosa che accade molto raramente nel campo delle trasposizioni in immagini delle opere letterarie, perché in genere il cinema attuale tenderebbe ad addolcire la pillola, a trattare la superficie della trama, più che a mantenere intatto il valore introspettivo della “ricerca” delle radici) coinvolgendo un apparato di prim’ordine che lo ha fortemente aiutato a raggiungere l’ineccepibilità della “confezione”, condividendone le finalità e assecondando la classicità dello sguardo e delle modalità di rappresentazione che sono la “cifra stilistica” che ne connota tutto il percorso rapsodico, fatto di impennate a volte furiose, altre più distese, di scatti, pause e riflessioni. L’impeccabile ricostruzione degli ambienti allora, che rappresentano l’esteriorità leccata e perbenista di troppe “case di bambola” nelle quali molte famiglie si disgregano dentro il conformismo ipocrita dell’apparenza, e altrettante Nore ci si dibattono inermi per non avere ancora preso piena coscienza, di "quella" condizione di "sudditanza" (anche se in fondo sono proprio loro - è l’appartenenza al genere femminile a renderle tali - le più ricettive e sofferenti,) così che quando tentano di farlo, di "compiere il passo cosciente della comprensione come appunto fa April, sono ormai troppo scoraggiate e deluse, sconfitte e “rassegnate” da scegliere l’irreversibilità di una “fuga” definitiva e senza ritorno che le renderanno eroine doloranti, testimoni sconfitte della fine di un “sogno” immaginario che la realtà ha ormai bruscamente ridimensionato fino ad annullarlo del tutto. Ottima anche la sceneggiatura. Indimenticabili e “preziose” le luci e la fotografia di Roger Deakins giustamente in odore di Oscar,. Strabiliante tanto è efficace e palpitante nel suo incedere quasi elegiaco (persino un pò mininimalista con il suo non essere invasivamernte prevaricante), il tessuto musicale (partitura di Thomas Newman) costruito ad arte per impreziosire la “tela” e i rapporti. Superlativa infine la recitazione di un cast in stato di grazia (ma su questo ci ritornerò in chiusura)… e nostalgicamente illusorie le “tentazioni di approdi” impossibili a realtà più confacenti (come se fossero i luoghi a fare la differenza, !!!) così cecovianamente sottolineate da renderle infattibili utopie …(Parigi come Mosca insomma… niente più che un miraggio per tentare di restare ancorati a qualcosa che alimenti per lo meno una residua speranza). I nostri eroi (si fa pere dire) sono questa volta i coniugi Wheeler, Frank e April, appunto, una coppia alla deriva fra le tante, all’apparenza felice e omologata, con due bambini e una “decorosa” decenza di facciata, dentro la quale si dibatte invece disperatamente fra ipocrisie e fallimenti, incapace di rigenerarsi e di superare il conformismo esasperato dell’apparenza buonista che la soffoca. L’’ambientazione è rispettata e resa realisticamente credibile (gli anni ’50 del secolo scorso… siamo quindi vicinissimi agli scompensi, differenti ma analoghi - e diversamente "affrontati" e risolti -di “Lontano dal Paradiso”)… ma è tutt’altro che preistoria, poiché la potenza narrativa del romanzo e l’immutata forza della pellicola che in differente forma ne rispetta il succo, sostituendo spesso alle parole l’autorevolezza evocativa degli sguardi, dei volti, dei corpi, di tutto ciò insomma che in genere viene definito come “comunicazione non verbale”, è e rimane di una attualità sconcertante. Nonostante gli anni infatti, troppo poco è cambiato e il vuoto esistenziale, le frustrazioni il perbenismo ipocrita, l’assolutizzazione della parola “famiglia” che la svuota poi di un senso compiuto e di una progettualità condivisa, sono analoghi a quelli che avvelenano e rendono invivibile il nostro presente, come ugualmente sfuggenti e impersonali sono i rapporti umani in una società che privilegia l’esteriorità della omologazione ad ogni costo, alla sostanza, e che stigmatizza con veemenza ogni possibile diversificazione da quelli che ha definito impropriamente i propri canoni di vita reale. C'è in questo caso (evidenziate con impietosa chiarezza), la "definizione" delle radici dalle quali trae origine e si alimenta la “deriva” che ci trascina sempre più lontano da un approdo decente.. rappresentate proprio da quella "società dei consumi" ad ogni costo che ci sommerge (e qui analizzata “in pectore”) che ci ha trasformato così pesantemente, da renderci incapaci persino di “scrutarci” dentro e di confrontarci davvero con i nostri “bisogni” reali. Dunque è il 1955 o giù di lì : Frank e April, con il loro due bambini, abitano in una linda villetta a Revolutionary Hill, nel Connecticut occidentale (rispecchiando le loro angosce e i loro cedimenti in altrettante realtà “immutabili” e conformi fatte di rancorose convivenze coperte impropriamente dalla parola “amore” rappresentate dalle copie dei vicini e degli amici). Le loro giornate sembrano scorrere calme e ordinate, scandite dai ritmi immutabili della quotidianità, tra orari dei treni da rispettare, pendolarismi lavorativi, tradimenti innocui (o “rabbiosi”), e i ricordi feroci di una delusione artistica che non può ancora alimentare il sogno, di una ambizione naufragata forse davvero per mancanza di talento. Si sviluppa fra periodiche cene con gli amici di sempre, nuove conoscenze e ciaccole non sempre innocue. Tutto sereno e conformizzato… ma dietro l'immagine della famiglia felice, il loro rapporto s'illividisce sempre più fra lo scontento e la tensione. E sarà il disincanto e il risentimento ad avere la meglio, cancellando ogni possibile lieto fine. C’è un ultimo sussulto: il tentativo della donna che è proprio quella che più avverte il disagio, di sfuggire a una vita ormai diventata “senza qualità “e prospettive, che si trasformerà però nell’ultima frustrante “sconfitta” dalla quale sarà impossibile risorgere. Ed è il senso della famiglia “tradizionale” che la società vuole conservare intatta ad ogni costo nonostante l’evoluzione dei tempi e dei costumi, a risultare immiserita proprio nel suo ruolo, ad evidenziare tutta la falsità ipocrita su cui poggia le sue basi, che diventa una prigione dentro la quale è difficile resistere indenni (forse per farlo, quando davvero non se ne può più.. è necessario spegnere l’auricolare, astrarsi, non ascoltare, rinunciare alla dimensione realista del contatto uditivo per annullare così la “inutilità” irritante delle parole, come accadrà appunto nella sequenza conclusiva misurata e “necessaria”, forse ancora più tragicamente priva di speranza. Una chiusura degna di un folgorante incipit, che già prima dei titoli di testa, in poche sintetiche scene, riesce a definire il clima e le dimensioni del conflitto “irrisolto” e latente destinato a deflagrare, esistente fra i due coniugi, grazie soprattutto al gioco degli sguardi e dei rimandi (”ti ho sposato solo perché una volta mi hai fatto sorridere” ammetterà feroce in un litigio April) "ma non ti amo"). Dunque Mendes “priorizza” la strada di utilizzare la recitazione dei propri interpreti per restituire intatta la tensione e il peso delle parole di Yates… ed è proprio su questo versante che i risultati che riesce a raggiungere sono strabilianti per incisività e potenza. Diciamo subito che l’impatto più “travolgente” è rappresentato dall’eccezionale aderenza interpretativa, dalla forza dirompente di un attore che qui appare di grandezza incommensurabile per come in pochi tratti riesce a tratteggiare i connotati del figlio paranoico della vicina di casa (colui che rappresenta la cartina di tornasole capace di urticare e far uscire allo scoperto le contraddizioni e i compromessi del perbenismo atroce della coppia). Michael Shannon è clamoroso, splendido…una rivelazione!!. Le sue scene sono “fondamentali”- davvero il punto clou – quelle che danno vita e spessore a tutto… e lui riesce ad essere davvero così incisivamente e “follemente fuori” da ogni schema mediato, che diventa inesorabilmente colui che incarna meglio e più appropriatamente lo spirito caustico di Yates, acquisendo appunto il ruolo fondamentale di colui al quale è demandato il compito di stigmatizzare l’implacabilità “accusatoria” di una inesorabile denuncia… Ma è Mendes a dirigerlo… non dobbiamo dimenticarlo. E un personaggio così impattante nonostante la sua tutto sommato “breve” (in termini di minutaggio) presenza sullo schermo, il “peso” che assume è indubbiamente frutto di una volontà e di una “collaborazione” condivisa… Se non fosse altro che per questo allora… onore al merito dell’attore ma anche a quello del regista!!! Perché in questo campo si è lavorato davvero di “cesello”. Per definire la prova ancora una volta maiuscola fornita dalla Winslet inoltre, non ci sono parole sufficienti, né elogi esaustivi, tanto scava in profondità con gli occhi, gli sguardi, persino la postura del corpo, nei sentimenti e nelle emozioni, riuscendo a rappresentare splendidamente la gamma infinita delle sensazioni contrastanti che si sviluppano e lottano fra loro durante tutto l’arco temporale della pellicola. Un capolavoro di introspezione e di sofferenza, di rabbia, di indomita rassegnazione , di furente rivolta, che raggiunge vertici assoluti e sublimi. Una Kate Winslet superlativa insomma, ma ben coadiuvata da un Di Caprio mai così in “palla” come questa volta… totalmente estraneo ad eccessi divistici ai quali avrebbe persino potuto indulgere, e assolutamente compreso, nell’imborghesimento un po’ tronfio del “signor qualunque”.. persino leggermente imbolsito nel fisico, come richiesto, ma capace di sfoderare cattiveria e drammaticità esasperate, che evidenziano non solo una maturazione, in progress che lo rendono ormai un “certezza” assoluta, ma anche una tenuta stilistica encomiabile nel tratteggiare il ”vuoto” e l’ipocrisia del suo “essere molto peggiore” di come pretende di raccontarsi. Sono i loro volti, i loro corpil e tensioni che riescono a creare fra campi e controcampi, a fare emergere in superficie a farle diventare palpabili, le angosciose sofferenze interiori che entrambi i personaggi provano, a rappresentare integralmente così, il disincanto critico espresso dalla scrittura di Yates, a “interpretarne” le parole. Attorno a loro, una di nuovo efficace, bravissima Katy Bates (quasi integralmente ricostituito allora a dodici anni di distanza il cast di Titanic… forse proprio per amplificare il peso evocativo di “quel” ricordo), petulante e falsa, strisciante e viscida come da copione… Efficacissimi anche tutti gli altri (la straordinaria duttilità dei caratteristi d’oltreoceano… la loro capacità di assumere i tratti camaleontici con appropriata aderenza di ogni cpersonaggio anche minore a loro affidato). Insomma un film da vedere e rivedere (e un romanzo da recuperare per leggerlo e “rileggerlo” proprio per comprender dove siamo e dove stiamo andando).

Su Adam Mucci

Ottimo

Su David Harbour

Bravissimo

Su Ty Simpkins

Adeguato e pertinente

Su Ryan Simpkins

Perfettamente calato nel contesto

Su Zoe Kazan

"giusta" e adeguatamente incisiva

Su Kathryn Hahn

ottima

Su Michael Shannon

la vera rivelazione: la punta di diamante di un cast eccellente sotto tutti i punti di vista.

Su Kathy Bates

Bravissima come al solito: fuori dal "mestiere" questa volta, disegna un personaggio in punta di penna e senza eccessi strabordanti, ma proprio per questo con l'efficacia e misurata dell'eccellenza

Su Kate Winslet

Meravigliosa!!!! Elettrizzante!!!! Eccezionale!!!

Su Leonardo DiCaprio

... molto molto bravo e misurato.... efficace e disponibile a mettersi in gioco anche con un personaggio non completamente positivo... Maturo e coinvolgente

Su Sam Mendes

Classicamente attenta ad esprimere il "senso" e la mnecessità della storia concentrandosi soprattutto sull forza degli interpreti tutti straordinari, che rappresentano a mio avviso proprio la cifra "stilistica" della pellicola... una scelta di campo insomma, un un ripiego.

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