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In Bruges - La coscienza dell'assassino

Regia di Martin McDonagh vedi scheda film

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La recensione su In Bruges - La coscienza dell'assassino

di Kurtisonic
4 stelle

L’ambizione di questo film è di partire con le variazioni sul tema, (il titolo italiano In Bruges, la coscienza dell’assassino non è uno stravolgimento) con inserimento di contenuti e di registri narrativi differenti per arrivare a costruire un film di genere, diciamo una commedia noir. Il regista Mc Donagh opta per la scelta contraria a quella che convenzionalmente nel cinema di un certo spessore parte da elementi di lettura consolidati per approdare gradualmente verso altri lidi con linguaggi diversi. Il risultato non riesce del tutto, usando toni da commedia che sfiorano l’ilarità o che strappano qualche mezzo sorriso assistiamo alle vicende di due gangster irlandesi Ray e Ken, confinati a Bruges per nascondersi. Nel compiere un’esecuzione portata a termine, Ray ha ammazzato anche un innocente bambino. Eroso e tormentato dal senso di colpa, Ray dimostra da subito l’inadeguatezza del suo personaggio, possiamo intuire che sia magari alle prime armi, ma quando viene mostrata la scena dell’esecuzione e altri momenti in cui emerge la sua verve comportamentale non si direbbe così nuovo del mestiere, curiosamente si affligge per l’ammazzamento del bambino ma per l’altro che ha eliminato non nutre nessun rimorso, fa parte del lavoro, deontologicamente portato a termine e che non può generare nessuna conseguenza interiore. Crediamoci, è un pentito del piffero ma non importa, la sua soglia cerebrale è così lacerata che…con la velocità di uno zapping  emotivo da telecomando, fa vedere che lui a Bruges si annoia, sbuffa, si rompe, cerca compagnia femminile per ingannare il tempo, e guarda che culo, la trova fra battutine spiritose e siparietti che mettono a dura prova la possibilità di affibiargli un minimo di credibilità. E il rimorso, la colpa, il bambino? Un momento, prima il piacere, poi quando serve alla sceneggiatura lo tiriamo di nuovo fuori. Non siamo nel territorio dei Coen o di Tarantino, non c’è un contesto sopra le righe che sia tanto artificiale da sembrare naturale, tutto è misurato carinamente e tutti i personaggi sono allineati sullo stesso registro comportamentale (con l’eccezione di un nano americano che fa l’attore in un set nella stessa Bruges). Non si salva nessuno, Ken il socio affascinato dalla cittadina è un buono, un padre di famiglia mancato che magari ha il vizio dell’omicidio ma in fondo chi non ha mai pensato di volere far fuori qualcuno,  o il loro capo, spietato e bastardo dentro, che nello scontro finale si preoccupa di partire alla pari con il contendente come un lord del 700, la proprietaria della pensione dove Ray alloggia che invita gangster armati grondanti di sangue ad uscire di casa sennò sporcano il pavimento e se lei s’incazza prende la scopa, la ragazza e il suo ex boy friend, scontati dalla prima inquadratura. Non bastano quei dieci minuti finali per creare un cortocircuito fra dramma e tensione, tutto appare sostanzialmente debole. Evitano la figura di merda il prete ammazzato dai due, che era l’obiettivo della missione, e il bambino dall’apparente età di sei anni che invece di stare all’oratorio a correre dietro alla palla o a giocare con la playstion a Grand Theft Auto, aspettava di confessarsi. Sipario? No, velo pietoso

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