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Blood and Bones

Regia di Yoichi Sai vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Blood and Bones

di yume
8 stelle

Kitano dà alla figura di Shun-pei una carica espressiva potente, è l’energia pura dell’uomo delle caverne proiettato nel futuro senza tappe intermedie, vive allo stato brado una vita di infamie che si manifesta nell’esercizio della forza fisica e nella totale negazione del benchè minimo senso del contratto sociale.

 

Appare, ripresa dall’alto, la prora di una “carretta del mare” piena di emigranti.

Vengono dall’ isola di Cheju nella Corea del Sud e lo sky line di ciminiere di Osaka è il loro orizzonte, la terra promessa, mentre gli archi della partitura di Taroh Iwashiro aprono un tema sonoro di forte presa, amaro negli assolo di violino, leggero e triste nel pieno orchestrale, una musica che dilata lo spazio angusto delle scene, ambienti logori in interni ed esterni, ampie carrellate ad accentuare distacco, senso di impotenza, irreparabilità.

La "camera" mantiene sempre la distanza dal suo oggetto, si muove orizzontalmente con lentezza estenuante o resta fissa, in un susseguirsi di scene piatte, dalla prospettiva dichiaratamente illusoria.

Necessario andare oltre la terminologia camera-oriented nell’analisi di questo film e sottolineare il ruolo che svolge il sonoro. E’ quella che si definisce “applicazione verticale”, ha la sua fonte altrove rispetto alla storia narrata, agisce sul senso e non sul ritmo, apre le immagini sul profondo, inesplorato confine della vita (un impatto simile tra percezioni visive ed auditive Kitano lo realizza in Sonatine, collaborando con Joe Hisahishi a questo fenomeno di scollamento straniante).

Kim Joon-pyong, alias Kim Shun-pei (Kitano Takeshi) arriva ad Osaka nel 1920.

E’ su quella barca che si vede in apertura e lo racconta la voce di Masao, uno dei numerosi figli disseminati in giro nei sessant’anni successivi all’arrivo in Giappone dalla sua incontenibile forza procreatrice.

Yoichi Sai gira il film sul romanzo autobiografico di Sugiro Yan, ed entrambi sono autori di origine nippo-coreana.

Scorrono sessantanni di storia a partire dagli anni venti, e leggiamo in filigrana, dietro la pérformance del protagonista che monopolizza il film come forza centripeta, la storia della colonia coreana nel Giappone imperiale, del caos seguito alla sconfitta nella seconda guerra mondiale, della miseria e delle frustrazioni di immigrati che vedranno nel comunismo cinese  una possibilità di riscatto da cui saranno ben presto delusi.

Dopo la guerra e un lungo periodo di latitanza, durante il quale ha trafficato chissà come e fatto nascere figli bastardi, Kim Shun-pei torna dalla moglie e riesce, con caparbia determinazione, violenza e ferocia, a diventare imprenditore di successo e aprire una fabbrica di kamaboko (involtini di pesce).

Si dedicherà col cinismo necessario anche all’usura e il successo economico ne farà un leader nella comunità coreana. Ogni suo passaggio sarà salutato con un “Capo”.

Ma Shunpei non è il povero immigrato che è riuscito dove altri falliscono, è molto di più, è l’incarnazione della volontà di potenza che si esercita sui deboli, che schiaccia i sentimenti umani, è il padre-padrone, l’uomo che violenta e umilia mogli e amanti, il boss avido che guarda solo al guadagno.

Il suo cinismo è talmente sterminato, la sua mancanza di pietà così totale, che definirlo mostro sembra inevitabile, perfino gli yakuza lo guardano perplessi chiamandolo “demonio”.

Shun-pei è un demonio assolutamente  umano, in questo consiste il suo status di eccezione, è puro istinto animale, mosso solo dalla ricerca del proprio piacere, il suo è un inferno solitario, nell’orbita del quale chiunque sia attratto è distrutto.

La sua è una vita da bassifondi, non c’è riscatto sociale neppure nella crescita economica, l’abiezione morale dell’uomo che regola ogni suo gesto con la violenza non prevede prospettive, si alimenta di sé stessa e delle sue vittime e lo lascia sul fondo della scala sociale a vivere una vita miserabile.

 

Kitano dà alla figura di Shun-pei una carica espressiva potente, è l’energia pura dell’uomo delle caverne proiettato nel futuro senza tappe intermedie, vive allo stato brado una vita di infamie che si manifesta nell’esercizio della forza fisica e nella totale negazione del benchè minimo senso del contratto sociale.

Quello che può sembrare un limite del film è la sua staticità, manca una dimensione psicologica, quasi annichilita dalla predominanza di una brutalità primaria che nega i rapporti umani, mai esplorati veramente in profondità.

E’ indubbio che il film mostri in questo la sua corda, come anche nel ritrarre in forme alquanto stereotipate il  contesto storico e la rivalità sociale tra immigrati ed autoctoni coreani.

Resta però un film su cui è difficile dare un giudizio di qualità.

C’è una forza anche in questo limite, quasi che il ritrarre un panorama così desolante dell'egoismo e dell’abiezione umana abbia volutamente annichilito tutto il resto.

Nel vedere Shun-pei masticare carne marcia con vermi, sgozzare con gusto un maiale, stuprare la moglie o rivoltarsi nel fango durante la rissa col figlio, bruciare la faccia del dipendente con braci afferrate a mani nude, si pensa alle forze primordiali che popolarono il caos premitico, una specie di Urano che divora i suoi figli di cui ingravida Gea, l’incarnazione del male allo stato puro.

Ma Shun-pei non assurge al rango di eroe negativo.

Merito certo della magnifica prova di Kitano, Shun-pei rimane sempre un piccolo uomo, capace solo di dirci che la violenza è parte integrante della natura umana, e può anche prevedere momenti di inaspettata e ringhiosa dolcezza, come nella cura della concubina malata di cancro.

Sul corpo di Shun-pei gli anni lasceranno tracce pesanti, nell’ultima mezz’ora la sua innata violenza dovrà convivere con una debolezza dolorosa.

Era quasi preferibile vederlo nel pieno delle sue forze, lo spettacolo del male che soccombe  all’insulto del tempo può essere perfino più insopportabile del male stesso. 

 

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