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Racconti da Stoccolma

Regia di Anders Nilsson vedi scheda film

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La recensione su Racconti da Stoccolma

di mc 5
8 stelle

Questo è un film che fa quasi rabbia. Per la sua discontinuità e per lo scarso equilibrio complessivo che mostra. Fa rabbia perchè il tema trattato (la violenza fra le mura domestiche che hanno origine dai pregiudizi) è molto importante e sentito ma affrontato da una regìa in parte piatta e senza particolari guizzi. Ma occorre approfondire, e spiegare i motivi per cui vale comunque la pena di vedere questa pellicola. Il film comprende tre episodi, e qui sta il problema: due di questi sono trattati con una certa banalità di sceneggiatura, mentre il restante è diretto in modo emozionante e coinvolge il pubblico appassionandolo e trascinandolo in un crescendo di tensione. In pratica, se dovessi esprimere una valutazione separata, attribuirei un 10 all'episodio migliore e un 5 agli altri due. Ma attenzione: quell'episodio riuscito vale da solo il prezzo del biglietto. Nei freddi paesi del Nord Europa non è neanche piu' una novità che dietro una società molto evoluta a livello sociale e politico si nasconda un malessere crescente, e le statistiche che ogni tanto vengono diffuse sul numero dei suicidi parlano chiaro. Qui abbiamo il caso di una brillantissima ed emancipata giornalista televisiva, specializzata nel condurre inchieste, che nasconde, dietro la facciata del successo professionale, una vita privata d'inferno, con un marito frustrato e violento che non esita a picchiarla anche di fronte ai loro bambini. Questa donna troverà il coraggio di denunciare il marito e di fare di questa sua rivendicazione personale il punto di forza della sua discesa in campo politico. Il tema è delicato e attualissimo, ma a mio avviso narrato in modo banale, scontato e prevedibilissimo. Comunque -e qui so già che riceverò delle critiche che tenderanno a smentirmi- io non credo che una prestigiosa ed emancipata giornalista d'inchiesta (che potremmo assimilare, grosso modo, ad una Milena Gabanelli) possa verosimilmente subire violenze sistematiche da un marito manesco, e per di piu' perdonarlo tante volte prima di decidersi a denunciarlo. Dài, non è verosimile. Poi c'è l'episodio piu' debole, quello piu' "abborracciato". Un baldo giovane proprietario di un locale alla moda nutre un sentimento d'affetto verso il capo dei suoi addetti alla sicurezza. Quest'ultimo viene gambizzato da un gruppetto di malavitosi e da qui si innesca un meccanismo di caccia all'uomo poco esaltante e che vede protagonisti due attori decisamente irrilevanti. Ma veniamo al gioiello del film, quell'episodio che, personalmente, mi ha coinvolto (e so di non essere il solo) provocandomi reazioni molto intense e che, oltretutto, è anche quello meglio recitato e che vanta la messa in scena piu' credibile ed efficace. A Stoccolma vive, come del resto avviene in ogni altra capitale europea, una famiglia mediorientale. Come sappiamo, i nuclei famigliari di quella provenienza vivono con particolare rigore i dettami della propria fede religiosa, osservandone i criteri talvolta in modo integralista ed estremo. Ed è in quei casi che possono manifestarsi episodi patologici: tutti quanti abbiamo percepito lo choc della notizia, due anni fa, di quella famiglia pachistana che, a Brescia, eliminò fisicamente la giovane figlia Hina, rea soltanto di esibire con troppa presunta disinvoltura la propria bellezza di adolescente. Ecco, la vicenda cinematografica si sviluppa nello stesso "brodo culturale". Famiglia operosa ed onesta, ma legata in modo morboso alle regole arcaiche e alle logiche tribali dell'onore imposte da una educazione religiosa che si tramanda da generazioni. E' perfino inutile aggiungere che le ultimissime generazioni di queste famiglie tendono a rigettare del tutto queste tradizioni ancestrali trovandole (giustamente!) anacronistiche e soffocanti. In questa famiglia abbiamo due sorelle, una ancora adolescente, l'altra che ormai è quasi una donna e che, ovviamente, inizia a considerare le attenzioni che riceve dal sesso opposto. Ma è sufficiente che il padre di lei intercetti un innocente SMS diretto alla figlia perchè si scateni un meccanismo ossessivo di repressione e di violenza che porterà alla tragedia piu' estrema e dolorosa. Tutto ciò mentre la sorella minore, intelligente, matura e molto sensibile, assiste impotente a questa delirante persecuzione. Credetemi, questa vicenda è realizzata in modo molto coinvolgente, da far palpitare gli spettatori. Non posso fare a meno di evocare una sequenza veramente allucinante, di quelle che ti fanno stare male sul serio. Immaginatevi, in piena notte, i famigliari della ragazza "incriminata" (a cui nel frattempo si sono aggiunti altri parenti a dare man forte ai genitori) che si dispongono ai due bordi di una strada trafficatissima (forse un'autostrada) e che spingono (da ciascuno dei due lati) la povera creatura in mezzo alla strada, per farla "suicidare" sotto le auto e i camion che corrono veloci. E lei che corre come impazzita da un lato all'altro della strada, e ogni volta viene di nuovo spintonata in mezzo ai veicoli in corsa. E tutto questo sotto gli occhi della sorellina piu' giovane straziata dal dolore e che piange disperata. Alla fine, questa Leyla, la sorella piccola, è un personaggio che ti viene da amare, la credi quasi reale, vorresti abbracciarla forte. Andate a vedere il film: sono curioso di sapere se sono io ad essere così facile ad emozionarmi e se le vostre reazioni sono piu' "sgamate". Nell'ambito di un cast composto di volti a noi ovviamente sconosciuti, da segnalare la presenza (giusto un breve cammeo) di Bibi Andersson, attrice feticcio (e musa) di Ingmar Bergman per molti anni. Ancora una volta il cinema esercita un'importante funzione di riflessione e di analisi sulle condizioni della società e sui fenomeni critici che la investono. Funzione assolta talmente bene da meritare al film il premio "Amnesty" al Festival di Berlino.
Voto: 7 e 1/2

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