Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Narrare la figura politica di Andreotti, ancora oggi il politico più longevo della storia italiana (sia come incarichi di governo, come ministeri gestiti e pressoché anagraficamente) sarebbe stata un’impresa colossale che avrebbe ricoperto la storia della Repubblica dalla Costituente fino a governi dei primi anni 2000 ove all’alba degli 87 anni il Senatore a vita Andreotti per un soffio non divenne Presidente del Senato. Sorrentino, bisogna riconoscerlo, non si cimenta in un film fiume sulla biografia di Andreotti, che sarebbe stato davvero troppo ingombrante e a rischio di fare uno spezzatino simile a quanto ha realizzato recentemente Ridley Scott con il pessimo Napoleon. Al contrario il regista partenopeo si concentra su una fase ben precisa della storia andreottiana che si racchiude in 2 anni: la nascita del suo ultimo governo, e la sua caduta dopo circa 1 anno, la tentata scalata al Quirinale ed infine l’inizio del processo per mafia a Palermo. Questo periodo, sebbene politicamente non certo il più florido della carriera andreottiana, ha sicuramente rappresentato però il giro di boa con cui si è conclusa l’intera storia della classe dirigente della Prima Repubblica. Quasi a coronare questa conclusione fu proprio il VII Governo Andreotti a chiudere quella stagione legata all’uomo politico che meglio (o peggio per i detrattori) aveva rappresentato gli oltre 40 anni di potere democristiano del dopoguerra. Sin dai brillanti titoli di testa la storia di Andreotti si interseca con quella dei misteri italiani, i morti erano peraltro personaggi a lui vicinissimi o che comunque la cui storia si era intersecata con la vita politica del Divo Giulio. Vediamo immediatamente Sindona con il suo caffè al cianuro, Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri di Londra, l’omicidio dell’avvocato e commissario liquidatore Ambrosoli, l’omicidio del Generale Dalla Chiesa ed infine quello di Aldo Moro. Pressochè ciascuno di questi personaggi, dai più loschi ai più cristallini si è incontrato o scontrato con Andreotti o la sua politica: nella trama, i riferimenti ai tesissimi anni ’70-‘80, in cui la nazione era davvero stremata tra tentati colpi di stato disegnati dai fascisti a suon di stragi e della cosiddetta strategia della Tensione, al terrorismo rosso tra le strade e le fabbriche, con fiumi di denaro che passavano dalla malavita al vaticano, una mafia che da fenomeno con cui “trattare” stava divenendo una minaccia incontrollata. Andreotti in tutto questo era diventato il campione di sospetti, collusioni: sfiorato da ogni scandalo, sospettato di essere il regista occulto di ogni trama o di ogni delitto ne era sempre uscito con l’idea (di cui quasi si compiaceva) di essere il grande vecchio che una volta ancora l’aveva fatta franca. La miriade di sospetti, illazioni avevano sempre lasciato su di lui un alone di collusione ma che non avevano mai portato ad una concreta possibilità di indagarlo. Ecco che quindi Sorrentino tratteggia appunto questo personaggio da cui emergono riflessioni, sensi di colpa, confessioni (al proprio parroco o “idealmente” alla moglie Livia) su quell’enorme agglomerato di potere di cui lui è stato interprete. Tuttavia sotto chili di cerone bianco e con una voce sibilante che non lascia mai spazio a nessuna inflessione, il personaggio di Servillo-Andreotti sembra anche troppo uscito dal Bagaglino. Per chi ha dimestichezza con il personaggio di Andreotti, sebbene il cinema debba necessariamente trovare una sintesi e in alcuni casi un paradosso, era una figura anche sapientemente spiritosa, certo ingessato ma non una specie di statuta di cera costantemente in doppiopetto. Ad ogni interlocuzione nel film sembra rispondere come una telescrivente che ha già tutto stampato nella testa, senza inflessioni e con uno sguardo vitreo che, ribadisco, appaiono più da Bagaglino che una sintesi o paradosso del personaggio reale. La scena più celebre del film, in cui il Divo si confessa quasi guardando in camera è entrata negli annali ma mi è sembrata anche storicamente pcoco azzeccata: l’idea che Andreotti avesse in serbo di sfruttare la strategia della tensione per vedere rafforzati i partiti governativi va proprio nella direzione opposta, ove è storicamente evidenziato che tale disegno fu drammaticamente messo in atto dalle frange estreme della politica che volevano appunto minare i partiti governativi a favore di una svolta autoritaria dovuta proprio alla “debolezza” dimostrata dalla DC nella gestione di fenomeni terroristici. Al netto del fatto che tra politici democristiani (nonché socialisti e di altri partiti) vi furono molti collusi con organizzazioni come la P2 non è possibile storicamente accettare una confessione/ricostruzione in cui lo stragismo veniva gestito dallo Stato. Così come le finalità della gestione del rapimento di Aldo Moro, al netto di mille complotti e supposizioni nonchè testimonianze di dubbia affidabilità dei membri della Banda della Magliana, al di là dell’effettivo disordine nel tentare di individuare il covo dei brigatisti, non mirarono a voler eliminare lo statista democristiano. Meno evidenziato, anche se a mio avviso ben più grave fu quell’appoggio invece, sopratutto da parte dello stesso Andreotti, a personaggi, in primis Michele Sindona, a discapito sia delle istituzioni che degli uomini che le stesse avevano posto in ruoli rischiosi, tanto per essere chiari: il caso di Giorgio Ambrosoli ancora oggi mette i brividi, così come è straziante l’assoluta distanza della politica riassunta nell’immagina della vedova che accompagna per mano i due figli al funerale del marito, funerale al quale nessun rappresentante dello Stato partecipò. Detto questo cinematograficamente è molto affascinante vedere un politico che si pone quale interprete tra le esigenze più basse della politica, per la sopravvivenza del sistema di potere, attraverso una sorta di auto-assoluzione soprattutto sotto un profilo religioso: “per arrivare al bene bisogna fare il male. Questo Dio lo sa e lo so anch’io”. Molto più suggestivo invece l’incontro con Scalfari in cui i sospetti del giornalista nei confronti di Andreotti e di tutti gli scandali che lo hanno visto coinvolto, si scontrano proprio con la complessità della storia di cui fa parte anche la sua vita professionale. Altrettanto affascinante il percorso di sgretolamento del potere a cui assistiamo, per cui vediamo un Andreotti inizialmente venerato dalla sua corrente (la celebre frase del suo vice Franco Evangelisti [non citata nella pellicola] “uno per tutti, tutti per Giulio”, racchiude la deferenza che i suoi sodali avevano per questo “peso massimo” della politica) che usa la sua influenza per raccomandazioni e addirittura per definire il novero dei farmaci presenti nel prontuario, arriva presto a vedersi isolato e addirittura evitato nel transatlantico, mentre i grandi nomi della politica di allora stavano per capitolare di fronte al grande scandalo emerso con l’inchiesta di Mani Pulite. In una sequenza iniziale che sembra uscita dal film The Untouchables – Gli intoccabili con Al Capone che si fa fare la barba davanti ai giornalisti, assistiamo allo stesso modo al Divo che riceve la sua corrente di partito (in realtà era frequente che Andreotti rivecesse i suoi dal barbiere del Parlamento), anche in questo caso Sorrentino ha un’ottima idea nell’evidenziare le scelte sempre pragmatiche ed in parte ciniche di Andreotti nella scelta di personaggi attorno a lui estremamente discussi, al limite dell’avviso di garanzia (la figura di Salvo Lima per quanto ben poco approfondita è quella che in svariate occasioni fu osservata come il referente regionale delle cosche per la corrente andreottiana ed eliminato non per non aver rispettato degli accordi di connivenza con le organizzazioni malavitose) ma che gli consentivano di avere un bacino di voti ed un peso politico enorme. Detto questo, anche nei confronti dei suoi primi riporti emerge un Andreotti di nuovo impassibile più dedito a disprezzarli che a considerarli degni di stima o fiducia. Cambia invece l’approccio del Divo nei confronti della famiglia: la rigida moglie Livia che in una sequenza ridimensiona eccezionalmente i talenti del marito o il commovente momento in cui guardano insieme la televisione cercando di schivare le trasmissioni che parlano del processo del marito fino alla sequenza con la colonna sonora de I migliori anni di Renato Zero, mostrano un Andreotti che avverte quasi una sudditanza nei confronti della moglie. Quando il film uscì nella primavera del 2008, lo stesso Andreotti, all’epoca 89 enne, ebbe modo di vederlo in una proiezione privata, asserendo come prima reazione che fosse una “mascalzonata”, per poi rettificare e dire che questa espressione poteva essere cancellata e anzi augurandosi (con la proverbiale ironia) che il produttore si ricordasse di lui nella condivisione degli utili della pellicola.
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