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Crazy in Love

Regia di Petter Næss vedi scheda film

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La recensione su Crazy in Love

di scapigliato
7 stelle

Il film di Næss è ambizioso come tutti i film che trattano le malattie e gli handicap senza passare per il politicamente corretto e l’eufemismo buonista. Sicuramente scegliere la strada della commedia, o comunque del dramma leggero, ha facilitato l’operazione. La storia è vera, anche se poi i fatti e gli eventi di contorno sono romanzati, ed è quella di due ragazzi autistici, sindrome di Asperger, che riescono nonostante la loro malattia a entrare uno nell’altro. Lei è la bella e brava Rhada Mitchell, lui è Josh Hartnett, attore di grana grossa, tra i migliori di sempre, sottovaluto e messo via in qualche polveroso cassetto in un cono d’ombra.

Se Mozart and the Whale - da noi ribattezzato chissà perché Crazy in love - non è un capolavoro, resta un esempio silenzioso, tenue ed educato di un cinema che non vuole esagerare, non vuole ricattare con lacrime facili la pietas per ragazzi malati che nonostante tutto ce la fanno, non vuole nemmeno essere troppo indies e quindi poi peccare di autorialismo gratuito. L’intenzione ultima del regista è semplicemente raccontare l’universo distorto di due ragazzi disabili proponendo ugualmente un bello spettacolo dal taglio adolescenziale, fatto di primi amori, primi appuntamenti, litigi, riluttanze, fughe e ritorni. Dopotutto il titolo originale esemplifica le due personalità principali: Rhada Mitchell è Mozart perché è una partitura musicale, è creativa bizzarra, incontenibile come la musica e il suo musicista; Josh Hartnett è la balena perché non solo è grande e grosso, ma come un elefante in mezzo a statue di cristallo, il suo essere balena gli crea impiccio, lo rende visibile a tutti e allo stesso tempo invisibile, riuscendo così a barcamenarsi tra il mondo che vorrebbe e quello che la malattia gli impone.

C’è una certa differenza se vogliamo tra L’ottavo giorno di Jaco Van Dormael (1996) e il film di Næss, differenza di stile che invece si avverte di meno con Rain Man di Levison (1989). Lo scarto sta nella spettacolarizzazione dell’handicap, anche in senso positivo, contro l’intimità della malattia, di cui Van Dormael è comunque un po’ parco, visto che il suo bellissimo film è molto “americano” pur preservando lo stampo e la cultura europei. Ciò che non sfugge agli occhi di un attento spettatore è che nella bizzarria un po’ naïf della sceneggiatura si rintraccia anche la dolcezza di una riflessione intima sul mondo privato di due ragazzi problematici non per volontà ma per natura propria. E se il regista sa giocare di equilibrio tra commedia e dramma intimo, strizzando l’occhio di volta in volta al pubblico più attento e a quello più disimpegnato, gli attori, Hartnett su tutti, sanno dare ai loro personaggi quella credibilità che davanti ad un’esagerazione di istrionismo - divertentissimo in questo Hartnett a briglie sciolte - non ci urta né ci permette di credere che stiamo solo assistendo a una semplice rappresentazione in forma di commedia brillante di un tema e di una malattia seri come l’autismo e la sindrome di Asperger.

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