La recensione su Joshua

Il tema è sempre uno dei più delicati e spinosi, quello dell'approccio coi cosiddetti "horror estivi". Facciamo dunque un punto della situazione, in un'estate in cui, come da tradizione, questo genere di film sta imperversando nelle sale (soprattutto multisale). Fino ad oggi (metà luglio) a parte la sorpresa positiva (con qualche riserva) di "Rovine", per il resto si sta volando piuttosto basso, con quei due picchi di rara schifezza che sono "Boogeyman 2" e "Che la fine abbia inizio". E adesso arriva questo "mistero" chiamato Joshua. Già è strano che le critiche ne parlino benino, oltretutto segnalando che il film vanta come biglietto da visita le buone accoglienze ricevute nientemeno che nei festival di Courmayeur, Locarno e (addirittura) il Sundance. A questo punto se fossi un romano un pò volgarotto mi scapperebbe un sonoro "Mecojoni!!". E allora il sottoscritto, munito di regolamentare bibita ghiacciata, si fionda in sala pronto a recepire il gioiello annunciato. E invece si trova di fronte ad un film per certi versi anche passabile, ma comunque mediamente deludente, di quelli a cui si dà una sufficienza striminzita. La vicenda proposta è catalogabile in quel sottofilone che definiremmo "bambini malefici inquietanti e con sguardo cattivo". Scusate la lieve ironia, ma è che non ho mai sopportato questo sottogenere, legato nei miei ricordi a memorabili ciofeche tutte all'insegna di "presagi" e "premonizioni" varie. Ma una cosa, al di là dello scarso valore del film, mi preme sottolineare. In questa pellicola, seppure in un contesto che, perdonatemi, ma non riesco a prendere sul serio, c'è una bellissima prova d'attore. Sam Rockwell, lo conoscete? E' quel tale, con la faccia un pò da topo, che fu brillante protagonista del sottovalutato "Confessioni di una mente pericolosa". Ebbene, Sam offre qui una intensissima performance e riesce -ripeto- in un contesto abbastanza ridicolo a mettere in scena con ottimi risultati il personaggio di un uomo tormentato dall'indole malvagia del figlio. E sarei quasi tentato di affermare che la "prova" di Rockwell vale il prezzo del biglietto. Ad affiancarlo, una Vera Farmiga nei panni di una moglie afflitta da depressione post-parto che dà di matto ed è talmente isterica che dopo appena venti minuti dall'inizio vorresti già strozzarla con le tue mani. E poi c'è il piccolo Joshua, un bambino posseduto da tutti i clichè che il ruolo prevede. Sguardo fra l'assente e il cupo, con una espressione impenetrabile che se vedi per strada un bimbo così la prima cosa che fai ti tocchi gli attributi. In piu' con una capigliatura folta che sembra (l'espressione viene testualmente usata nel film) "di plastica". Le frasi che la sceneggiatura mette in bocca al piccolo "portatore di sfiga" sono estremamente significative, del tipo (rivolgendosi rispettivamente a papà, mamma e zio): "Mamma, ma papà mi vuole bene?", "Papà, ma mamma mi vuole bene?", "Zio, ma papà e mamma mi vogliono bene?". E mentre lui pone questi interrogativi così "pregnanti", tu pensi: "oddìo, quale sfiga capiterà adesso che Joshua ha parlato?". E infatti nel giro di pochi attimi già c'è qualcuno che si è buttato di sotto. Naturalmente il bambino fa anche strani disegni e vede cose che altri non vedono, ci mancherebbe che non fosse così. Del padre e della madre-rompicoglioni ho detto, resta da dire dello zio, un personaggio (e un attore) che non sa di niente e proferisce solo minchiate, con un'aria da esistenzialista-figo che te la raccomando. Se trovo quel critico che ha evocato riferimenti a "Rosemary's Baby" lo ammazzo. Ehm...avete notato che non ho ancora scritto il nome del piccolo attore che impersona Joshua? Scusate ma ho i miei motivi. (Non vorrei capitasse qualcosa pure a me...).
Voto: 5/6