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Haze

Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film

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La recensione su Haze

di OGM
8 stelle

Haze. Muro. Un uomo si ritrova misteriosamente imprigionato tra due pareti che lo stanno schiacciando. L’obiettivo di Tsukamoto partecipa alla sua angoscia lasciando che questa contagi lo sguardo, che in tal modo si fa inquieto ed incostante. Si sofferma trepidante sul dettaglio, per poi migrare verso altre prospettive, perdendo così la visione d’insieme. Perfino il tempo appare frammentato, spezzato al ritmo di un ansimare inarrestabile, che stacca l’attimo dalla realtà, incorniciandolo in un opprimente spicchio di smarrimento. Un’angolazione tagliente riduce le immagini a lampi obliqui di  un terrore enigmatico, del quale è impossibile distinguere i contorni. Questo mediometraggio è una sintesi dell’estetica di Tsukamoto, fatta di ferro e sudore, di sostanza organica che interagisce con la materia dura e inanimata trasferendovi la propria viscerale sofferenza. Il dolore si compie dentro; è il dramma claustrofobico dell’allucinazione che, come in Nightmare Detective. uccide dall’interno, o della corazza che, come in Tetsuo, racchiude il corpo e lo disumanizza. La paura è un’eco sorda, rimbombante in un vuoto invaso dall’oscurità: i rumori metallici che risuonano in questo film richiamano il buio della mente in cui si insinuano gli incubi assassini, o l’ombra meccanica che si allunga sulla persona, spegnendo in essa la luce delle emozioni. Le membra si contorcono nello sforzo di sottrarsi all’avanzare del nulla, che in questo caso assume la forma di un infernale labirinto che scortica e stritola, ed è attraversato da devastanti intemperie, che a tratti sembrano stillicidi di pietre, a tratti piogge di lame. Una condizione inspiegabile, la cui origine è, come sempre, confusa tra la follia, l’esoterismo ed il paranormale. Ancora una volta, il cinema di Tsukamoto riduce la catastrofe al livello del singolo individuo, facendo del suo corpo il teatro di un cataclisma cosmico: una fine del mondo che si scatena sulla sua pelle e nel suo pensiero, sconvolgendo la percezione dei sensi e le facoltà intellettive. La visione, fluttuando, interpreta la crisi della ragione, nella quale ogni cosa è messa in dubbio (essere smembrati e galleggiare nell’acqua): occhi e dita, denti  e unghie sono, in quell’uomo incastrato in un dedalo di cemento, le parti più visibili, protese verso un’irraggiungibile via d’uscita, che è da intendere, in senso metaforico, come l’impossibile conquista di un significato.  Ad emergere dal fondo nero sono soprattutto le plastiche sporgenze dei suoi muscoli in tensione, e del suo volto contratto dalla fatica e dallo stupore. E intanto, intorno a lui, una selva di mani e piedi amputati testimonia le tante speranze di salvezza che sono andate definitivamente deluse.  Alla fine niente si risolve, ma a tutto si può sfuggire: qualcuno vi riesce, ed è comunque il caso a decidere a chi tocchi. Il suo gioco è imperscrutabile, e di dimensioni tali da non poter essere abbracciato per intero dalla memoria, né dal raziocinio: il cervello ne registra soltanto i bagliori più accesi, fugaci ed puntiformi come fuochi d’artificio, od immensi ed accecanti come il sole in estate.

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