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Il mattino ha l'oro in bocca

Regia di Francesco Patierno vedi scheda film

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La recensione su Il mattino ha l'oro in bocca

di scapigliato
8 stelle

Tutto parte da “Shining”. O forse. Con un titolo che mette subito in chiaro l’aspetto ossessivo e compulsivo delle febbre da gioco che animò gli esordi del Marco Baldini nazionale, Francesco Patierno punta anche all’ironia e al grottesco della vicenda. Elio Germano, Elio il Grande, non proprio avvezzo alla commedia, grazie a quel suo viso duro “nato contro”, riesce ugualmente a sferzare le reni del gioco comico e di impostare un personaggio che vive sì di ironia e sberleffo, ma che vive anche con profondità lucida e personalissima il dolore e lo spettro di qualcosa di più grande e peggiore di lui. Se il film è semplicemente tratto dal libro di Baldini “Il Giocatore”, e qualche licenza forse se la prende anche senza il consenso del diretto interessato, i personaggi sono tutti conosciuti, chi più chi meno, al pubblico contemporaneo al film, e così il gioco è fatto. Poteva ben prestarsi alla solita fiction per decerebrati, che chiamano i loro beniamini del piccolo schermo per nome perchè non hanno la grandezza di una loro personalità, invece il film nasce e finisce giustamente al cinema, là dove un nano può diventare un gigante. Sì, c’è un certo Boss, interpretato con bravura da un Vergassola davvero in parte, che è poi nella realtà il Claudio Cecchetto di radio dj, che è poi la vera stazione radio in cui è ambientato il film; c’è pure un certo Rosario, quello di Corrado Fortuna, che ti sbatte in faccia un po’ troppo il binomio genio/sregolatezza; e soprattutto c’è lui, tale Marco Baldini che è proprio il Marco Baldini della realtà. Quindi finzione pura, maschera e realtà vera e propria con tanto di nomi e cognomi, si fondono nel film, imperfetto, di Patierno, che alla fine degli anni ’80 fa girare le Micra della Nissan, oltre che a mettere Germano come figlio spurio di una famiglia tipica toscana, lui che non dice una parola di toscano per tutto il film. Insomma, imperfetto sì, ma che proprio in questi tratti non affatto rigidi e coerenti tende alla dimensione sospesa dell’interiorizzazione. Soprattutto nel secondo tempo, quasi tutto ispirato, notevole. Il primo invece, vuoi per presentare i personaggi, vuoi per impostare l’incipit personale del Baldini da cui prende piega la vicenda, è un primo tempo un po’ zoppicante, con qualche passaggio ispirato, ma non del tutto.
Il fatto è che c’è Elio Germano. E tutto diventa oro. Manco a farlo apposta. L’attore più vero e genuino del cinema italiano ricrea con le sue mani un personaggio che vorresti solo divorare da quanto è bello. Anche nei personaggi “tragici”, l’Elio Germano ha sembre dato una sfarinatura anche di paradossale cinismo, di quello brillante però, trasformandosi anche in scalcagnata maschera comica. La grandezza dell’attore/autore-di-sè-stesso, credo forse dall’animo scespiriano, quindi inquieto e poco incline alla conciliazione buonista, è una grandezza che si fonda sulla sincerità del suo lavoro sul personaggio. Sgombro di chissà quali fronzoli, l’Elio Germano possiede i tratti dell’attore che è già prima di essere. Lui stesso dice di non recitare, ma di sentire quello che sente il personaggio. Chi scrive invece fa e crede nell’esatto contrario. Potere degli opposti che s’attraggono, perchè credo in Elio Germano più di quanto non abbia mai creduto in un volto cinematografico italiano. É un Pinocchio riletto, il suo Baldini. Ci sono pure il gatto e la volpe; l’omino di burro e mangiafuoco se lo ripassano come vogliono; c’è il babbo toscanaccio (un grande Carlo Monni: attenzione alla scena del pianto tra lui e Germano, gran pezzo di cinema distaccato, secco, puro, istintivo) che lo vorrebbe normale come tutti gli altri bambini; c’è la fata turchina, la Chiatti, che lo salverà; c’è il Lucignolo/Rosario/Corrado Fortuna che se non lo coinvolge direttamente in un Paese dei Balocchi meneghino, resta l’immagine di uno sradicato giovane viveur; e poi c’è il Pescatore Verde, rivisto in Umberto Orsini, che fa davvero paura, come è da paura la bravura spiazzante dell’attore novarese: una vera faccia da cinema. Anche se questa lettura collodiana è parecchio forzata, lo ammetto, non si può non farla. E anche il finale, l’occhiolino di Germano alla camera, di cui non svelo l’intenzione, è sinonimo cinematografico del finale collodiano che, ricordiamolo, non è affatto quello che la morale borghese e pretina ci hanno ostinatamente trasmesso fino ad oggi del capolavoro di Collodi.

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