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Il petroliere

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Il petroliere

di casomai
8 stelle

Un dramma elisabettiano travestito da affresco epico, un'apparente carrellata storica dietro cui si cela una personale discesa agli inferi. Al fraintendimento contribuisce non poco il titolo italiano, che per concisione sembra richiamare la saga hollywoodiana per eccellenza sull'industria petrolifera, Il gigante, mentre la più sottile formula inglese There will be blood si presta a una serie di suggestive – e forse tutte esatte – letture. "Ci sarà sangue", nell'interpretazione più immediata, quasi un avviso allo spettatore che la vicenda umana di Daniel Plainview e il suo perseguimento della ricchezza non saranno esenti da violenza, e che il sangue scorrerà. Ma anche, prendendo il verbo will nel significato etimologico di "volere", la volontà del protagonista di ricrearsi dei legami di sangue (o magari crearsene, visto che del suo passato nulla sappiamo), sia come mezzo per creare e tramandare il proprio impero sia come antidoto alla propria misantropia. Per questo, non per mero spirito caritatevole, si prende cura del bambino trovato in una cesta, non esitando ad allontanarsene quando il piccolo entra nel vicolo cieco della sordità e, contemporaneamente, emerge dal nulla un fratellastro con cui sostituirlo. Quando il fratellastro cade in disgrazia, il figlio torna in auge (anche platealmente, come nella scena della conversione), ma l'illusione è destinata a finire quando il ragazzo rinuncia all'eredità e decide di vivere la sua vita lontano dal padre. Il problema del potere e, al tempo stesso, della primogenitura ci riporta al teatro elisabettiano, accomunando in particolare Plainview a un eroe tragico come lo shakespeariano Lear. E, esattamente come nel Re Lear, ciò che parrebbe il respiro epico del Petroliere (a cui contribuiscono la splendida fotografia di Robert Elswit e la struggente musica di Jonny Greenwood) non è che uno specchietto per le allodole, un espediente retorico dietro la quale si inscrive la tragedia individuale del protagonista e la sua monomania. Dramma claustrofobico, dunque, e non rievocazione di una pagina di storia americana. Il petroliere non dice una parola sulla società che fa da contorno alle vicende di Plainview, e la superstizione religiosa che sembra dominare la collettività non è vista nel suo contesto storico o sociale, ma ha piuttosto la valenza simbolica di un tipo di ossessione uguale e contraria a quella del protagonista. Il dialogo finale tra Eli e Daniel lo conferma: i due interlocutori, ognuno dei quali obbedisce solo al proprio istinto vitale, non sono mai stati così simili. Ognuno è pronto a calpestare il mondo per ottenere ciò a cui anela.  Ma a che cosa anela Plainview? Il suo sguardo sul mondo è davvero improntato alla semplicità come il suo cognome farebbe pensare (plain view, ovvero "sguardo semplice")? Forse sì, nel senso che Daniel non ha idee o principi ispiratori chiari riguardo a ciò che lo circonda e agli esseri umani. Sa che questi ultimi non gli piacciono, questo si, ma senza nessun tipo di precisione o di approfondimento della propria filosofia di vita. Il petroliere è sicuramente uno dei film più originali del primo decennio del nostro secolo e una straordinaria prova d'attore, nella quale Daniel Day-Lewis primeggia come forse non mai. Ma che sia davvero un capolavoro, come si è detto e scritto ad nauseam, è opinabile. Per esserlo gli manca forse il pregio della compiutezza, che Moravia indica come principale caratteristica dei classici. La narrazione è episodica, fatti e personaggi si susseguono per due ore e mezza comparendo, scomparendo e talora riapparendo sullo sfondo della vicenda umana di Plainview, il cui senso ultimo non è dato di comprendere. Il cerchio si apre, in altre parole, ma non si chiude, lasciando allo spettatore il sospetto, anche questo tutto shakespeariano, di un racconto "pieno di rumore e furia, che non significa niente".

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