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Johnny Guitar

Regia di Nicholas Ray vedi scheda film

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La recensione su Johnny Guitar

di Peppe Comune
8 stelle

Johnny Logan “Guitar” (Sterling Hayden), un cowboy che viaggia con cavallo e chitarra, dopo aver attraversato il deserto dell’Arizona sfidando una tempesta di sabbia, arriva nei pressi della cittadina di Albuquerque, al locale di Vienna (Joan Crawford), un saloon adibito a casinò ricavato nella roccia che la donna d’affari gestisce aiutata da Tom (John Carraine), il suo fidato braccio destro. I due non si vedevano da più di cinque anni e, anche se non se lo diranno subito, si amano ancora come un tempo. Poco dopo l’arrivo di Johnny Guitar, nel locale arriva Emma (Mercedes McCambridge) insieme a John Mclvers (Ward Bond), capo degli allevatori della zona. Emma accusa Vienna di dare impunemente ospitalità ad una banda di fuorilegge accusata di essere responsabile della morte del fratello. Non ci sono prove sulla veridicità delle accuse di Emma avallate senza indugi dal potente latifondista, ma nonostante lo sceriffo (Paul Fix) intenda procurarsi le prove per agire secondo la legge, la donna minaccia vendetta, promettendo soprattutto a Vienna di fargliela pagare cara. Questa banda di fuorilegge sarebbe quella capitanata da Dancin’Kid (Scott Brady) e composta da Bart (Ernest Borgnine), Corey (Royal dano) e il giovane Turkey (Ben Cooper), accusata di ogni malefatta commessa sul territorio anche perché Emma ama non corrisposta Dancin’Kid, che gli preferisce Vienna. A quest’intreccio passionale, si aggiunge l’arrivo della stazione ferroviaria proprio nelle vicinanze i cui lavori, se per Vienna rappresentano un’opportunità di sviluppo per i suoi affari, per Emma segnano l’inizio della fine, la corruzione irreversibile di un territorio immenso votato all’allevamento e al pascolo del bestiame. Sono soprattutto i sentimenti a veicolare le dispute esistenziali delle due donne, che giustificati o meno che siano fanno da sfondo elegiaco a questo scenario umano intriso di disincantato romanticismo. 

 

Sterling Hayden, Scott Brady, Joan Crawford

Johnny Guitar (1953): Sterling Hayden, Scott Brady, Joan Crawford

 

 

“Johnny Guitar”di Nicholas Ray è un film carico di luci e colori (grazie al Trucolor di Harry Stradling) che tagliano a fette l’ambientazione polverosa e desertica dell’Arizona per erigere uno scenario magniloquente al poderoso incedere della passioni umane. Un film che procede per fasi drammatiche fino all’epilogo finale oscillando tra l’elegia romantica di un amore mai sopito e il disincanto funereo alimentato da vecchi e nuovi rancori. Non è caratterizzato dal maledettismo disincantato del cinema di Sam Pechinpah e neanche è caratterizzato dall’elegia a sfondo metafisico tipica della poetica di John Ford. Ma conserva una classicità innaturale che è quanto è servita a far diventare “Johnny Guitar” un classico del genere. Perché sa farsi palcoscenico naturale per una rappresentazione possibile della commedia umana analizzata in tutta la sua inestricabile complessità. Un palcoscenico dove l’odio è alimentato dall’amore non corrisposto e l’amore è soffocato sul nascere dall’impossibilità di dare libero sfoggio ai propri sentimenti. Ragione e sentimento, vita e morte, amore e odio, commozione e crudeltà, altruismo ed egoismo, etica dell’amicizia e senso della vendetta convivono in un unico scenario quindi, pronti a rendere sempre plausibile l’assunto che molte delle passioni e i sentimenti che muovono le azioni degli uomini rimangono orientati da uno stesso ordine psicologico anche se diverse possono essere le cause e lo scenario che li fanno emergere. Detto altrimenti, “Johnny Guitar” è un western a suo modo atipico, fosse solo perché è retto sulle personalità poderose di due donne guerriere, poli catalizzatori di un intreccio da tragedia greca che si consuma al confine di un mondo in via di profondi ed irreversibili cambiamenti. “Non ho mai conosciuto una donna più uomo di lei”, dice un ospite del saloon a Vienna, una frase che giunge poco dopo l’arrivo di Johnny Guitar nel locale, con la sua inseparabile chitarra ed avvolto da una tempesta di polvere e sabbia che ha accompagnato il suo viaggio. Una sequenza che ci catapulta subito in atmosfera poco ospitale, dove a farla da padrone è il confronto contrastato che si paleserà da li a poco in maniera evidente tra chi non ha timore di guardare al futuro con sfrontato ottimismo e l’atteggiamento duro di quanti devono sempre guardarsi le spalle da un pericolo incombente.

Nel saloon di Vienna si consumano gli ultimi rantoli dello spirito pioneristico, sullo sfondo di intrighi passionali che rendono il tutto più elettrizzante, ad andare in scena è lo scontro tra l’idea progressiva di uno sviluppo umano che non deve conoscere freni e la conservazione dell’esistente concepito come elemento fondamentale per la propria identità. Vienna ed Emma sono le fonti principali di questo scontro. La prima è una donna in affari e vede di buon occhio l’arrivo della ferrovia e di altre genti, fonti di guadagno per il suo locale e premessa essenziale per superare quell’isolazionismo che annoia. Emma, invece, teme quei “coloni che arriveranno dalla costa, intrusi bifolchi che ci cacceranno via”, dice ad un certo punto per tenere alta la rabbia degli alleati allevatori. Intende difendere con la forza ciò che possiede e non esita ad individuare il locale di Vienna come il centro di irradiazione di un male che sta corrompendo la morale corrente. Questo male sarebbe rappresentato dalla banda di Dancin’Kid, dalla cui fuga verso i monti, oltre la frontiera, ha inizio una parte finale davvero bella che culmina in un epilogo dai forti connotati epici. Una sequenza dall’alto valore simbolico anche, perché sia la fuga che la caccia che ne consegue, si intrecciano con i lavori della ferrovia che ne impediscono il lineare andamento. Finiscono così per vivere in uno stesso istante il vecchio e il nuovo, il mito della frontiera, a cui si accompagnano i valori “machisti” da difendere fieramente con la pistola, e l’innovazione che avanza con le sue prospettive di cambiamento ad esacerbare ancora di più gli animi.

In tutto questo, Johnny Guitar non è certamente uno spettatore passivo dato che non ha mai smesso di amare Vienna. Ma rispetto alle cesure storiche in atto di cui tutti gli attori in scena rappresentano simbolicamente una posizione ben delineata, lui è nel mezzo ed arriva solo quando la resa dei conti vuole conoscere il sue epilogo più naturale. Non è un caso che Johnny Guitar non porti il cinturone con la pistola pur essendo una “pistola più lesta della ragione”. Perché lui rappresenta l’eroe romantico venuto a salvaguardare l’autenticità dei sentimenti più sinceri, la tradizione aperta alle nuove possibilità offerte dal divenire storico. La spavalda sicurezza che ostenta caratterizza il suo atteggiamento sia quando tenta di riallacciare con Vienna il filo dei comuni sentimenti, che quando deve vedersela in armi con i suoi pari. Ma più dell’impavido pistolero ben conscio della propria abilità, di lui colpisce la semplice naturalezza con cui si accompagna ad una chitarra in un mondo dove ancora si parla con la pistola : come se fosse l’arma più potente con cui poter diffondere un canto nuovo.  

“Johnny Guitar” è un grande film entrato di diritto tra i classici del genere, retto su delle interpretazioni iconiche che non si dimenticano. Svettano naturalmente quelle delle due antagoniste Emma e Vienna, la dispotica inconsolabile Mercedes McBridge e la magnetica Joan Crawford. Poi il romantico vestito da duro Sterling Hayden, chitarrista per scelta e pistolero per necessità. Bella e struggente la colonna sonora di Victor Young.

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