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Johnny Guitar

Regia di Nicholas Ray vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Johnny Guitar

di spopola
8 stelle

Rielaborazione poetica e affascinante del mito della frontiera con moltissimi elementi innovativi e di rottura rispetto agli schemi più tradizionalmente ortodossi, “Johnny Guitar” è un’opera pregna di una fortissima carica di folgorante romanticismo che fa lievitare il film fino a farlo diventare un capolavoro assoluto intriso di lirismo barocco.

Rielaborazione poetica e affascinante del mito della frontiera con moltissimi elementi innovativi e di “rottura” rispetto agli schemi più tradizionalmente ortodossi, “Johnny Guitar” di Nicholas Ray è un’opera pregna di una fortissima carica di folgorante romanticismo che la rendono un assoluto capolavoro intriso di lirismo barocco. Ancora una volta è lo scontro fra il “bene” e il “male” ad emergere in primo piano, ma il tema è trattato in maniera insolita e tutto al femminile, con sottotracce molto evidenti (nonostante i tempi e le limitazioni imposte dalla censura) di un sofferto rapporto che lascia intravedere le radici nascoste di una non sufficientemente rimossa “passione amorosa” che sta all’origine dell’odio profondo che contrappone alla “tragica” Vienna della Crawford (mater dolorosa e volitivamente determinata), l’indimenticabile, implacabile”virago” della “nera anima perduta” di Emma, una Mercedes McCambridge da manuale (e le rivalità, le tensioni, gli attriti “scintillanti” fra le due primedonne sul set e fuori, rendono ancora più veritieramente palpabili le contrapposizioni estremizzate di questa “collisione fra titani”). Johnny Guitar, realizzato con scarsi mezzi e pochissima attenzione da parte dei produttori, eppure capace di diventare fin dal suo debutto sugli scherni un travolgente cultmovie per intere generazioni di cinéphiles, è una delle opere fondamentali della nutrita filmografia di Ray, un regista spesso fuori dagli schemi che qui sotto l’apparente semplicità dei rapporti e della trama (se si eccettua infatti l’innovativa valenza del protagonismo femminile, il resto è “in superficie” canonicamente ancorato alle tracce della convenzione), costruisce un western “adulto” che “manipola” la tradizione, per trasformarla in un melodramma ridondante e sovrabbondante fortemente “impegnato” anche sotto il profilo politico (i riferimenti polemicamente antimaccartisti che “denunciano e condannano” gli squadristici metodi di caccia alle streghe del periodo sono concretamente palesati e profondamente “sentiti”) intellettuale, complesso e socialmente rilevante (come non riconoscere all’interno la matrice di un feroce pamphlet contro il puritanesimo repressivo che avvelenava l’America di quegli anni?) ma anche, al tempo stesso, un bellissimo, “acceso” poema d’amore, l’esaltazione di quel sentimento assoluto e immortale “che l’immaturità dei personaggi rese un tempo impossibile e che solo le sofferenze e le dure prove di una vita vissuta rendono finalmente realizzabile”. Nella esemplificazione innovativa e insolita del solito triangolo che ha contrapposizioni opposte rispetto alla consuetudine conforme e normalizzata, Ray riesce a rendere palpitante l’attrazione compensativa fra due vinti che credono nelle loro “passioni” e che, resi più forti dalle sofferenze e dalle prove, tentano di trovare proprio attraverso il sentimento di reciprocità che li avvicina e unifica, una (nuova) ragione di “affermazione” per la propria esistenza e per la propria dignità. La storia è semplice e lineare: Johnny, “armato” di chitarra anziché di pistola per riscattare un oscuro passato avventuroso e truculento dal quale ormai ha preso le distanze, viene assunto da Vienna, sua ex amante, nel frattempo diventata la “sgradita” proprietaria di una casa da gioco che avversari feroci e senza scrupoli fra i quali spicca la personalità irruenta di Emma Small, sua acerrima nemica e “rivale” vorrebbero “espropriare” per consentire il passaggio della nuova linea ferroviaria. Fra alterne vicissitudini e “complotti accusatori” si arriverà allo scontro conclusivo che vedrà opposte in un insolito duello all’ultimo sangue proprio le due donne. Vienna uscirà vincitrice dal confronto, anche se un incendio devastante e distruttivo l’avrà privata del locale e di ogni altro suo avere, ma così ricostruita e rigenerata, potrà affrontare nuovamente il futuro con rinnovato ottimismo per rifarsi una esistenza accanto al suo chitarrista innamorato. Girato in un Trucolor tutto giocato sui contrasti esasperati fra i neri (il colore della perfidia di Emma) e i bianchi (indimenticabile e miticamente iconograficizzata l’immagine ripresa in campo lungo di Vienna in abito adamantino che canta all’interno del locale accompagnandosi al pianoforte) con forti impennate cromatiche di rossi e gialli (l’azzurro, malamente reso dal sistema Trucolor è – per ragioni anche di mera origine tecnica - meno significativamente presente) spesso sprigionate dai bagliori delle fiamme sovente presenti ad illuminare la notte e a sottolineare anche “visivamente” i momenti degli scontri e della lotta. Davvero notevole il lavoro sul colore del direttore della fotografia Harry Stradling, capace di restituire alla fotografia la valenza di una funzione drammatica esplicata attraverso la gamma delle nuances e delle contrapposizioni contrastate dei toni. Analogamente indimenticabili le note suadenti rese immortali dalla voce di Peggy Lee, della canzone del titolo su musica di Victor Young, un “evergreen” ancora attuale e appassionato. Il parterre degli interpreti è come al solito entusiasmante a partire dalle già citate protagoniste, una Joan Crawford che ci restituisce l’intensità di un personaggio romantico e sensuale e che ricomporrà proprio a partire da questo film il “modello” identificativo un poco appannato della sua statura divistica, destinato ad amplificarsi e a durare immutato negli anni fino alla “svolta” conclusiva di “Baby Jane” e seguenti, e una altrettanto superlativa McCambridge, caratteriasta di razza e di raro talento che rende alla perfezione la diabolica, mascolinizzata, trucida personalità di Emma, fino ad arrivare al monolitico, affascinante Sterlin Hayden perfettamente idoneo, anche fisicamente, per far emergere la struggente, romantica passionalità del ruolo eponimo. Ma anche nelle parti di fianco si impongono nomi importanti e talentosi, capaci di centrare alla perfezione il disegno delle figure più periferiche loro assegnate, da Scott Brady a Ward Bond, da John Carradine a Ernest Borgnine (e scusate se è poco!!!) interpeti spesso entrati nel “mito”. “UN WESTERN IRREALE E MAGICO” insomma, e mi piace proprio concludere stigmatizzando l’opera con questa definizione di Truffaut, estimatore innamorato ed emotivamente coinvolto, che meglio di tante parole riesce ad illuminarci nella visione.

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