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The Bourne Ultimatum. Il ritorno dello sciacallo

Regia di Paul Greengrass vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su The Bourne Ultimatum. Il ritorno dello sciacallo

di lussemburgo
8 stelle

Capitolo forse conclusivo della trilogia dedicata al killer smemorato, l’ultimo film di Greengrass, pur non abbandonando il piglio dinamico della serie, si concentra dettagliatamente sulle fondamenta della vicenda di Bourne, svelando l’antefatto e rivelando la vera identità dell’eroe.
Action fisico, la cui dinamicità è accentuata e repressa dalla regia di Greengrass, fautore inossidabile della macchina in spalla e della repentinità del cambio d’inquadratura che rendono talmente veloci le scena da impedire la visione d’insieme, il film approfondisce un assunto palese sin dal primo capitolo: il contrasto tra il corpo e la macchina, tra la tecnologia schierata all’inseguimento e l’uomo in fuga, tra la fisicità concreta e il virtuale applicato.
E ironicamente, Bourne stesso rappresenta una sintesi di questi ossimori, un corpo senza memoria, un file corrotto, un personaggio senza identità - se non fittizia - che sopravvive e avanza grazie all’istinto, un addestramento rimasto sottopelle, mentre la mente cerca una risposta a tanta letale efficacia. La fisicità del suo corpo diventa l’unica riposta possibile alla tracciabilità del segnale, la variabile umana capace di depistare e sorprendere, ma anche da reprimere proprio per la sua unicità. L’Agenzia al suo inseguimento, quella CIA cinematograficamente memore dei Tre giorni del Condor, non è che una centrale tecnologica di intercettazione, brulicante di umani obbedienti, impassibili nei confronti degli ordini impartiti, delle eliminazioni programmate, strumenti consenzienti di una caccia all’uomo planetaria, in mondo unico unito dalle tecnologie, interconnesso e anonimo. Quasi nessuno nell’Agenzia ha una precisa identità. Anzi, l’identificazione corrisponde sempre alla messa nel mirino, all’ordine di soppressione. Analisti di sistemi sostituiscono gli agenti sul campo, il telecomando aziona eliminazioni e distruzioni a distanza, la morte si delocalizza e demanda, si delega e dimentica.
Il fattore umano Bourne, pedina ormai consapevole e impazzita, è il pericolo maggiore, il peggior nemico immaginabile perché imprescrutabile, mosso da esigenze personali e bisognoso di quella verità così imbarazzante da dover essere elusa, negata ed elisa ad ogni costo. Eppure la caccia nasconde solo una vacua lotta di potere all’interno delle istituzioni, una brama di efficienza per cui si predilige barare e sfuggire alle responsabilità rimanendo sotto la vaga insegna della guerra al terrorismo, scusa prediletta per vendette private, scudo morale per ogni nefandezza.
Emerge forte in questo film, volutamente esplicativo, un fondo ideologicamente antimilitarista e morale, in cui si fanno evidenti gli echi della situazione odierna, che traduce l’amnesia del protagonista in sintomo di stress post-traumatico, nella ripercussione involontaria di un eccesso di addestramento, nella dolorosa epifania di un’umanità repressa che si scontra con la rivelazione di quella verità negata dall’istinto di sopravvivenza. La trilogia non è che una terapia regressiva a tappe verso l’origine del male, del dolore psicologico della propria attitudine alla morte, la presa di coscienza di un eroe vuoto, forse destinato ad un impossibile percorso di redenzione fuori campo.
La storia di Bourne è il resoconto della morte e della resurrezione di un automa dal motore inceppato, infine libero dall’inconsapevolezza ma gravato dal peso della responsabilità: la volontarietà della scelta iniziale. Vittima consenziente, Bourne aveva scelto l’arruolamento, ideali e sogni erano stati sfruttati e deviati, il corpo rafforzato, la mente annichilita, una perfetta macchina omicida che, inaspettatamente, si ribella al suo creatore alla ricerca di una umanità negata e repressa, resa con dolorosa impassibilità da Matt Damon, silenzioso e imperscrutabile, che sopravvive a tutto e a tutti, quasi suo malgrado.

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