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JFK - Un caso ancora aperto

Regia di Oliver Stone vedi scheda film

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La recensione su JFK - Un caso ancora aperto

di Decks
8 stelle

Dallas, 22 Novembre 1963. Una data che non sconvolse solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero, in quello che fu uno dei più discussi e famosi attentati della storia: l'assassinio di John Fitzgerald Kennedy.

La fine del presidente fu una di quelle che non si dimentica; capace di lasciare sbigottita e in lacrime un'intera nazione, fondata sul patriottismo e che da sempre si immedesimava in quel sorriso e nei gentili saluti di "Jack".

Ciò a cui assistettero, fu un evento che ancor più di Pearl Harbor colpì a fondo uno stato il quale si riteneva invincibile e intoccabile, quando invece poche pallottole dimostrarono il contrario.

 

 

I proiettili, già... Sono proprio quei colpi sparati uno dei maggiori indizi che fecero, e fanno, ancora dubitare e speculare sulla morte del presidente; ed è proprio da qui, che nacque una delle ipotesi di complotto più famose e più distintive del XX° secolo.

Non stiamo parlando di una congiura di corte, bensì di un vero e proprio intrigo moderno: non possiamo sapere né l'origine, né chi possa aver ordito un simile delitto, le uniche cose che ci restano, sono poche prove e qualche testimonianza. Non vi è nessuna certezza, solo supposizioni di una possibile implicazione mafiosa o dello stesso governo statunitense, ma congetture restano e probabilmente resteranno.

Rimaniamo dunque con le nostre ipotesi, preferendole dall'accettare che una sola persona possa essere capace di aver causato tanto male e tanto dolore. Colpi che sono rimasti e rimarranno impressi in quel famoso filmato di Zapruder, che ancora sconvolge noi e il popolo americano.

 

 

Oliver Stone, non è l'unico e nemmeno il primo ad aver attinto dalla vicenda Kennedy, ciononostante è uno dei pochi che tratta Lee Harvey Oswald come un uomo del tutto innocente. Una scelta, questa, che gli fece ricevere numerose critiche e insulti durante la data di uscita, sia per l'aver difeso il presunto assassino e sia per aver manipolato la vera storia di Jim Garrison. La difesa di Stone fu ovvia, riassumibile in quattro parole "il cinema è finzione":

 

« Con questo film non intendo affatto dire: "...guardate qui, le cose sono andate esattamente così come descritte". Mi sono, invece, soltanto limitato ad ipotizzare una ricostruzione dei fatti come avrebbe fatto un buon detective, tutto qui. »

 

Se proprio vogliamo essere franchi, malgrado l'opera di Stone sia risultata interessante, il regista non si merita certo l'epiteto di "buon detective": un attribuzione esagerata visto il risultato delle deboli sceneggiature e della trama in sé, che ha tutto, fuorchè il valore storiografico. Ma torniamoci dopo.

 

Ben più meritevole, è il lavoro svolto da Don De Lillo nel suo romanzo "Libra", in cui mi permetto di soffermarmi per qualche riga vista la sua stretta correlazione con le tematiche del lungometraggio.

 

Libra è una lettura consigliata a tutti quelli che vogliono avvicinarsi ad una delle tante presunte trame tessuta ai danni del presidente natio del Massachussets. Il romanzo non è pregevole per la sua verosimiglianza, quanto per la narrazione e la parte biografica che scandaglia con attenzione la figura di Oswald, più curata di quanto non lo sia la sua controparte filmica.

Il confronto tra cinema e letteratura è opinabile, ma qui non si parla di quale sia più piacevole, bensì, di come è stata costruita l'intera vicenda e il rapporto con un personaggio così sfaccettato, misterioso e delicato come Oswald.

Stone dà la sua visione da sincero patriottico democratico; De Lillo, invece, documentandosi ampiamente, riesce a mescolare elementi storici e fittizi senza voler necessariamente dare una risposta concreta alle domande poste sull'assassinio: il suo scopo è quello di mostrare un uomo travolto dal destino; un capro espiatorio non semplicemente innocente come ce lo pone Stone, ma un importante tassello per la vicenda, perchè, come succede spesso, sono quelli più facilmente influenzabili e impulsivi a rimetterci.

 

« Tu pensa a due linee parallele – disse. – Una è la vita di Lee H. Oswald. L'altra è il complotto per assassinare il presidente. Che cosa congiunge lo spazio fra le due linee? Che cosa rende inevitabile l'incontro? C'è una terza linea. Esce dai sogni, dalle visioni, dalle intuizioni, dalle preghiere, dagli strati profondi della personalità. Non è generata da causa ed effetto come le altre due. E' una linea che interseca la casualità, attraversa il tempo. Non ha una storia che possiamo riconoscere o capire. Ma impone una congiunzione. Mette un uomo sulla strada del suo destino. » Don De Lillo

 

Sperando di aver acceso la curiosità di qualcuno che vorrà avvicinarsi al romanzo, passiamo ora ad analizzare il primo film che compone la trilogia sui presidenti degli Stati Uniti di Oliver Stone:

 

prima di tutto, è bene asserire sulla difficoltà nel trattare un simile argomento: il risultato, non poteva che essere un film di più di tre ore, che ci bombarda di informazioni e nomi da inizio a fine.

Ciò che poteva venirne fuori, era un prodotto pesantissimo e altamente documentaristico; invece, Stone riesce a mantenere viva l'attenzione con una bravura non indifferente nell'uso della macchina da presa: il suo stile è asciutto ed elegante, impegnato nel costruire un gigantesco puzzle fatto di testimonianze, perizie e materiali d'archivio che non solo riescono ad immedesimarci nella figura di un procuratore distrettuale, ma ci paiono persino veritiere.

Un ritmo vertiginoso, che riesce a creare sgomento come solo il cinema sa fare, Stone riesce persino a mitizzare le figure della famiglia Kennedy, tanto da far parere il tutto come un colpo di stato di stampo shakespeariano. Un'arma a doppio taglio, questa, che sì, intensifica il racconto, ma purtroppo non si addice al reale tipo di congiura avvenuta, cioè quella moderna.

 

Giustamente premiati la fotografia e il montaggio, che riescono a conferire i giusti toni archivistici e storici alla pellicola: la prima, con le sue tonalità grigie e sbiadite, dà l'idea di ritrovarsi a visionare un reperto cronista dell'indagine svolta da Garrison; le colorazioni rispettano fedelmente lo stato d'animo dei personaggi: malinconiche per lo più, ma con picchi di luce quasi divina nei momenti di fervore. Sicuramente, il loro punto massimo lo raggiungono durante la scena dell'autopsia di Kennedy: un bianco e nero disturbante, che mostra in primo piano il corpo dilaniato di un governante ritenuto, fino ad allora, pressochè intoccabile.

 

Il secondo è, come la regia, necessario a mantenere alta la soglia di attenzione: esso si sposta continuamente di volto in volto, stacchi continui su foto segnaletiche, materiali d'archivio e così via; il suo, però, è un ritmo quasi vertiginoso, che ogni tanto poco si addice alla tipologia di scena. Funziona su quelle più potenti e movimentate; perde, invece, punti durante frammenti più quieti e esaustivi. Rimane indispensabile nella lunghissima scena finale, dove assieme alle portentose musiche di John Williams danno la giusta atmosfera a quello che è uno dei migliori processi giudiziari mai girati.

Ed a proposito della colonna sonora: è vero che non perde mai di tono, ma sfortunatamente, essa si presta ad una voce eccessivamente enfatica come quella di Stone, da cui sprizzano scene madri e stracolme di inutile patriottismo che fuoriesce da ogni dove.

 

 

Ed è appunto nella sceneggiatura che si riversa tutto questo amor di patria, la quale fa perdere molta credibilità e importante oggettività al film in questione: nel suo essere un regista politico, Stone infarcisce di inutile retorica Garrison, rendendolo più un guitto gesticolante anziché un procuratore distrettuale.

Non solo il suo protagonista, ma intere sequenze sono esagerazioni continue di manifestazioni di eccessiva ed incontrollata commozione o qualsivoglia promessa. Il loro problema è quello di essere tante e, alla lunga, ammosciano molto il film (un esempio è la scena sulla tomba di Kennedy) rendendolo quasi ridicolo nei suoi continui exploit.

 

Kevin Costner è dunque relegato in un ruolo che lo fa apparire grottesco e quasi comico; il suo ruolo di protettore della grande America, così continuamente infervorato, fa sì che la sua interpretazione non venga mai presa sul serio.

I secondari invece se la cavano molto bene: su tutti vi sono un misurato e ambiguo Tommy Lee Jones, un paranoico Joe Pesci, ed un Donald Sutherland che con un tono di voce placido e savio, chiarisce quanto in realtà possa essere marcia e subdola la società in cui viviamo. Non a caso sono proprio questi personaggi a funzionare, visto che non sono costretti a sottostare a dialoghi esaltati, esclusivamente volti ad infiammare gli animi.

 

 

A Stone va riconosciuta la sincera abnegazione al suo paese, dato che essa gli permette di dare vita ad un opera, di cui, va riconosciuto il fatto, che la noia non si presenta mai nonostante le tematiche. In più, riesce a smantellare a colpi di cinepresa la teoria della Commissione Warren, ridicolizzando fotogramma dopo fotogramma la possibilità dell'assassino solitario.

Questa è una delle forze del lungometraggio: il suo voler trovare senso e valore della verità. Delle nobili intenzioni, che unite a dei buoni tecnicismi gli permettono di conseguire uno dei suoi migliori film, dove si può chiudere un occhio sulla politica invadente del regista newyorkese, grazie alla buona fattura e alla sua interpretazione di un incubo collettivo mai dissipato.

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