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La giusta distanza

Regia di Carlo Mazzacurati vedi scheda film

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La recensione su La giusta distanza

di ROTOTOM
4 stelle

Così la provincia italiana ispira atmosfere sulfuree, pare. Il torbido si nasconde nel rassicurante tran tran rurale scandito da tempi sempre uguali e facce che si riconosco ad ogni ruga. Film che ricordano che la follia non ha nulla a che vedere coi luoghi, visto che l’anima della gente occupa comunque tutto lo spazio disponibile e non ammette intrusioni, che sia un monolocale in una metropoli congestionata come negli spazi piatti senza punti di riferimento del rovigino, non luogo non identificato immerso nella nebbia. Il vento fa il suo giro, di Diritti proponeva il proprio personale Cane di Paglia tra i monti occitani, mentre in trasferta dalla incontaminata natura scandinava Andrea Molaioli poneva sulle nostre alpi la triste storia della Ragazza del Lago. Prima di Paravidino e del suo Texas provinciale a fare scempio di giovani annoiati e della grottesca Roma notturna di Notturno Bus di Marengo fu Avati a cortocircuitare la sana vita agreste con la follia ancestrale dei piatti paesaggi della valle del Po con la sua Casa dalle finestre che ridono. Il cerchio, per ora si chiude, si torna al piatto paesaggio nebbioso del Rovigino in cui la vicenda di Mazzacurati prende corpo. Forse sta prendendo corpo, anche se a livello embrionale, una coscienza nuova nel cinema di genere? Quello fatto di facce e caratterizzazioni ben delineate, storie semplici e secche nel loro incedere. Forse coi precedenti film elencati, non sicuramente con questo Mazzacurati troppo consapevolmente autoriale per dare incisività alla storia, troppo indeciso nello svolazzare tra i tanti temi sfiorati e mai definiti e autore di una svolta gialla che sa tanto ma tanto di pezza a chiudere più onorevolmente il film. E’ la storia di una maestrina che di rosso vestita, (cromatismo volutamente dissonante col grigiume diffuso del paesaggio di provincia) giovane bella e disinibita, provoca sussulti in più d’uno dei villici residenti, tanto da scatenare gelosie e voglie represse. Si intreccia la storia di un giovane che vuole fare il giornalista e comincia in incognito a raccontare le bazze del paese. Poi anche la storia della famiglia del tunisino che non ha moglie e il fratello che fa le piadine più buone di un romagnolo che perfettamente integrato racconta di come qualche italiano ancora lo vessi con rigurgiti di razzismo. E poi c’è il rozzo tabaccaio che allunga le mani e pensa solo ai soldi. E anche un giovanotto che guida gli autobus col ciuffo da imbecille e che sembra tanto gentile. Tanta roba, una sull’altra, retorica e sguardi luminosi si intrecciano a buonismo d’accatto e overacting, soprattutto della protagonista Valentina Lodovini che pare estremamente conscia della macchina da presa da essere naturale come un invitato ad un matrimonio quando il testimone prende la telecamera dicendogli “dai, fai qualcosa”. E così via per un’ora buona dispensando cinema pseudo minimalista e buone intenzioni rimaste al di qua della macchina da presa. E proprio quando il film sta per inabissarsi in un trattato realista di antropologia rurale ecco la svolta. In mezz’ora lei viene uccisa e il tutto vira da un tranquillo bordeggiare sulle brezze umide dell’inutile autoriale in cui il senso va scovato facendo finta di aver capito tutto, ad un giallo in cui il meccanismo atto a risolvere il delitto dovrebbe fare tesoro delle personalità sì lungamente (sovra)descritte per affondare la lama nel ventre molle dell’ipocrisia e donare spessore al tutto, riducendosi invece ad uno sterile e sbrigativo incastro di pezzi alla meno peggio a mera risoluzione dell’enigma. Alla fine quello che conta, in barba alla comunque sommaria e imprecisa caratterizzazione dei personaggi, è scoprire il CHI e dare un senso al titolo. La giusta distanza, è quella che un buon cronista deve tenere dalla notizia, senza farsi prendere dall’empatia emotiva con i protagonisti della vicenda. Ma a questo punto a nessuno importa più di tanto, a causa anche dei prefinali che tentano inutilmente di tirare tutti i fili della matassa ottenendo solamente l’effetto di diluire una storia che se avesse avuto la secchezza (anche se con macroscopici difetti) de La Ragazza del Lago, del quale replica le atmosfere, sarebbe stato anche un buon film. Purtroppo per fare queste operazioni ci vuole coraggio, il coraggio di fare meno, il coraggio di togliere e limare le sovrascritture che appesantiscono i copioni pesantemente gravati da sentimenti di responsabilità autoriale, quasi che fare semplicemente il “genere” fosse un peccato mortale. La giusta distanza in realtà va tenuta da questi prodotti, non troppo vicini per notarne tutte le imperfezioni, né troppo lontani per non perdersi nel confuso orizzonte nebbioso, distanza che serve per fare finta di nulla, a dare coraggio per una rinascita di un cinema che in passato ci ha visto tra i capiscuola e che adesso viene solo scimmiottato. Tra le poche cose positive, la fotografia di Luca Bigazzi, evocativa e profonda; e la divertente caratterizzazione del comico zelighiano Natalino Balasso convinto del suo ruolo marcato da un reale e credibile accento veneto. Tutto il resto è noia.

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