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Away from Her. Lontano da lei

Regia di Sarah Polley vedi scheda film

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La recensione su Away from Her. Lontano da lei

di spopola
8 stelle

Ottimo esordio in cabina di regia della Polley che, aiutata dalla densa scrittura di Alice Munro, ha confezionato un’opera semplice e diretta, quasi classica, esente sia da artifici narrativi che da vezzi stilistici. Il passo è lento, ma ha la levità della poesia a sostenere l’impresa e a renderla efficace e coinvolgente.

Ottimo esordio alla regia di una giovane attrice di talento (Sarah Polley) che in veste di interprete avevamo già avuto modo di apprezzare in più occasioni, ultima delle quali nell’appassionato “La vita segreta delle parole” (che è stato probabilmente il crocevia che ha consentito il fattivo incontro con Julie Christie, straordinaria interprete di questo interessante e tutt’altro che banale debutto dietro la macchina da presa). A maggior merito del positivo risultato, dobbiamo ascrivere il fatto che anche la sceneggiatura, a partire da un intenso racconto Alice Munro, è opera della stessa Polley, che si conferma così già alla sua opera prima, autrice a tutto tondo - e a pieno titolo fra le più singolari - nel non superlativo olimpo al femminile della cinematografia contemporanea. Il film parla soprattutto di sentimenti, di “perdite” incolmabili e di rinunce: la patologia che affligge la protagonista è semplicemente l’evento scatenante del dramma, l’elemento che determina il processo lacerante dell’assenza, della scomparsa progressiva della memoria e del ricordo e con questo, il trauma incolmabile dell’“abbandono”. Insomma si rappresenta una struggente storia d’amore non intaccata dal passere del tempo, piena ancora di desiderio e di attrazione, ma costretta lentamente a dissolversi a causa di una malattia forse più terribile della morte stessa (l’Alzheimer) che subdolamente si insinua fra i ricordi e gli affetti fino a cancellarli del tutto. La progressione è lenta e crudele (qui c’è l’evidente e anche inconsueta consapevolezza della protagonista per ciò che l’attende, il suo iniziale rendersi conto che sta davvero “piano piano scomparendo” insieme alle sue memorie e la conseguente volontà di mantenere attiva la coscienza per prendere ancora decisioni, prima che davvero tutto svanisca, al fine di non diventare un peso insostenibile per chi le sta accanto e la conforta con un intenso, partecipato, infinito sentimento che non intende estinguersi), a partire da una padella messa per sbaglio nel frigorifero, una “persino banale disattenzione”, che finirà per deragliare sempre più verso quell’istupidimento quasi stupefatto che devasta irreversibilmente la conoscenza, fino a rendere il percorso del pensiero non solo estraneo al passato, ma immerso in un imprevedibile presente particolarmente doloroso per chi deve assistere impotente a questo allontanamento senza possibilità di ritorno, ben simboleggiato da quelle rette parallele sulla neve (i solchi di due paia di sci, che a un certo punto si divaricano e divergono inesorabilmente per disperdersi lontane) che rappresentano una metafora evidente. L’Alzheimer non annienta solo chi ne è affetto, potrebbe essere la tesi prioritaria dell’opera, ma anche e soprattutto chi gli è vicino e ne è costretto a condividere passivo la sofferenza, con il peso terribile di una impotenza operativa che stenta a diventare rassegnazione. In effetti tutto lo straordinario, delicato, introspettivo viaggio che interseca elementi recuperati da un passato lontano e felice denso di nostalgia e di rimpianto a un presente pieno di insidie e di contraddizioni, è rappresentato dallo sguardo pensoso del marito che filtra magistralmente il racconto con il suo andirivieni temporale (uno straordinario Gordon Pinset che riesce perfettamente a rendere percepibile la sua scoraggiata e impaurita tristezza che deve fare i conti con l’iniziale difficoltà ad accettare quel disconoscimento crescente che spinge la moglie verso un nuovo “affetto” per un altro internato dell’istituto, e la successiva consapevole presa di coscienza della “necessità” di accettare questa inesplicabile nuova dimensione, come l’unica possibile occasione per lasciare alla donna qualche residuo barlume se non di felicità, almeno di serena e ignara rassegnazione. La regia della Polley è semplice e diretta, quasi classica, esente sia da artifici narrativi che da vezzi stilistici che renderebbero inevitabilmente meno pregnante e coinvolgente il percorso narrativo. Il passo è lento, ma ha la levità della poesia a sostenerlo e a renderlo a tratti persino elegiaco, fra le tristezze e i “rifiuti” di quegli “sfioramenti” sempre più marginali che lo rendono quasi uno sconosciuto estraneo, definiti dalle visite nell’istituto dove è ricoverata la moglie, fatti di variazioni impercettibili ma sempre più avvertibili, capaci di rendere sempre più incolmabile il solco, ma non per questo di scoraggiare la dedizione innamorata dell’uomo nel voler continuare a condivide il percorso sia pure “costeggiandolo” dall’esterno. Non è la prima volta che il cinema affronta l’arduo tema dell’Alzheimer, ma mi sembra che la Polley abbia il pudore della discrezione che altre volte è stata meno evidente in queste storie. E’ indubbiamente “tragica” (come lo è la malattia e ancor più le sue conseguenze) ma mai “pietista”, capace di “reggere” l’andamento su una posizione di equilibrio che non sbraca mai verso la commozione un po’ ricattatoria fine a se stessa. Una lucidità introspettiva, che sorprende e coinvolge per il senso della misura. L’abbagliante luce di un innevato inverno canadese, è la cornice ideale (ottimo il contributo di Luc Montpellier, straordinario mediatore della visione, capace di restituire intatta, nonostante il tempo trascorso che è sempre impietoso, anche la straordinaria, travolgente bellezza un po’ rugosa della Chrstie, una Fiona esemplarmente “controllata” e mai retorica nella rappresentazione disorientata del suo slittamento inarrestabile verso il nulla). Perché un altro pregio prioritario che dà smalto al risultato complessivo, è proprio la qualità della recitazione, non solo dei due protagonisti già citati (potremo sperticarci in elogi senza paura di eccedere), ma anche degli altri due interpreti principali, un ritrovato Michael Murphy al quale non occorrono “battute” per essere grandioso, gli è sufficiente la forza disperata e sperduta di uno sguardo che solo l’interprete di rango sa rendere così sfaccettato e coinvolgente, quasi smarrito e infantile, e una energica ma non rassegnata Olimpia Dukakis (una volta tanto utilizzata al meglio delle sue singolari qualità), la più volitiva e disincantata del quartetto, ma non per questo meno attenta ai “bisogni” e alle necessità primarie di chi gli è caro, di colui con il quale avrebbe voluto dividere “l’intero corso della propria esistenza” fino agli ultimi giorni, senza l’interruzione incomunicabile di quella patologia che distorcente. Tutti eccellenti e a posto anche gli altri componenti del cast.

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