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Elizabeth. The Golden Age

Regia di Shekhar Kapur vedi scheda film

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La recensione su Elizabeth. The Golden Age

di spopola
4 stelle

Un “melodramma” tinto troppo di “rosa” che alcune scelte anche figurative decisamente imbarazzanti e contraddittorie rendono ancor più discutibile asservite come sono alla piatta “descrittività” ampollosa del regista che invece di aiutare, contribuiscono ad aumentare “il distacco” emotivo dalla rappresentazione.

Il primo capitolo di questa saga, fu indubbiamente quello che più di altri contribuì a rivelare al grosso pubblico (ma anche all’attenzione della critica) l’immenso talento di Cate Blanchet, che si conferma superlativa anche in questo secondo episodio, ma ahimè la sua indiscussa bravura che nuovamente svetta cristallina su tutto e tutti, non è sufficiente (e non può esserlo) a salvare la baracca. Complessivamente, gli unici elementi di positività in questo rimasticamento pomposo e piatto, interessato più al “santino” che alla realtà storica dei fatti, sono rappresentati proprio dalla buona resa interpretativa dell’intero cast, oltre che dagli splendori cromatici dei costumi. Rispetto al primo episodio che pure non era eccezionale, un “inceppamento” preoccupante “dell’illustratore Kapur” dunque, che si dimostra davvero incapace di rendere giustizia (anche semplicemente “celebrativa”) alla controversa, sfaccettata “grandezza” fra luci e ombre, di una personalità indubbiamente fuori dal comune, ma della quale - comunque la si pensi ed ammesso e non concesso che le si vogliano accordare ogni possibile attenuante - non è certamente utile (e tantomeno veritiero) tracciare un percorso che sembra più affascinato dall’attrattiva della “beatificazione” santificata, che dalla volontà di adeguare la visione a una rispettosa analisi della “verità” anche “romanzata”, ma attendibilmente “consapevole”di quello che è stato il reale svolgimento dei fatti. Colpa a mio avviso soprattutto di una sceneggiatura pericolosamente inclinata verso il polpettone “melodrammatico” (i germi c’erano già nella prima parte, ma in fondo quello poteva essere considerato “il cammino di formazione”, e certe concessioni potevano essere persino “tollerate” anche perché in parte riscattate dalla conclusiva presa di coscienza del ruolo che spogliavano definitivamente la regina dei suoi “riferimenti umani”, facendole assumere le dimensioni non solo visive, del simulacro). Qui invece, visto che si affrontano gli anni della maturità, è davvero molto più difficile essere condiscendenti di fronte a questa “mediazione” piuttosto accomodante che rende la regina quasi una “vittima (in)consapevole” del proprio destino, “sconfessando” così il punto di arrivo “senza ritorno” della prima parte (e le “modalità” ripetitive degli “scivolamenti” sentimentali o delle “lacerazioni interiori” che seguono percorsi identici e risaputi e che si perpetueranno nuovamente con eguali connotazioni distintive, salvo la differente conclusione con la successiva “storia” che vedrà coinvolto il conte di Essex già immortalata in altre precedenti pellicole oltre che dalla sublime musica di Donizetti, non fanno che aumentare il disagio e il disappunto, proprio per la oggettiva mancanza di sviluppo “psicologico” che rende tragicamente unidimensionale questo superficiale tentativo di “lettura dell’anima”). Sulla carta, si poteva ipotizzare che – dato per scontato il forte appeal esercitato sul regista da colei che veniva definita “la regina vergine”– il film intendesse essere una analisi delle contraddizioni di un personaggio in anticipo (anche in contrasto, in qualche modo) sui tempi, suo malgrado costretto a fronteggiare un mondo fatto di uomini fra discriminazioni sessuali (il ruolo complementare e subordinato della donna) e contrapposizioni religiose che non potevano che far “incattivire” fino a rendere disumani e formalmente insensibili ad ogni emozione anche di carattere sentimentale, pur avvertendo la frustrazione di una inevitabile e definitiva privazione. Quasi un ulteriore passo in avanti insomma sul versante dello “scandaglio psicologico” di una battaglia tutta interiore contro la “solitudine”, il ritratto a tutto tondo di una donna alla quale non sono concessi cedimenti né esitazioni ed è per questo determinata (“costretta”) a utilizzare i privilegi accordati dalla sua condizione “regale” (anche quando questi determinano la necessità di fortissime rinunce soprattutto nel campo affettivo), per “domare” complotti e tradimenti non tanto in nome del popolo che rappresenta, ma per salvaguardare soprattutto il proprio predominio prevaricante del “potere”. In pratica invece il risultato è un semplice “melodramma” storicizzato persino tinto troppo di “rosa” che alcune scelte anche figurative decisamente imbarazzanti e contraddittorie rendono ancor più discutibile (oggettivamente “affascinante”, anche se non originalissima per esempio, la scena alla Giovanna D’Arco in armatura dell’arringa ai suoi soldati sul bianco destriero, ma c’è da domandarsi da dove vengono fuori quelle folte “sventolanti capigliature, visto che per tutta la pellicola abbiamo osservato una quasi inconsistente “peluria” decisamente vicina alla calvizie, sotto i pesanti ornamenti di quelle incredibili parrucche che fanno parte integrante e irrinunciabile della iconografia del personaggio. Ma anche la sequenza in cui la macchina da presa le gira intorno rendendola molto simile a una statuina di porcellana da innalzare sugli altari, non è davvero meno inquietante). Andando di questo passo, il terzo capitolo (se ci sarà) potremmo intitolarlo “Santa Elisabeth vergine e martire”!!! I riferimenti pittorici che hanno “ispirato” la composizione dei quadri in movimento porposti dal regista, sono tutti “dichiaratamente” dichiaratamente rimandabili a fonti facilmente individuabili, e di per sé possono risultare di una “indiscutibile eleganza formale” certamente molto accattivante. Non sono però sufficienti (come in parte invece succedeva nella precedente pellicola) a definire lo stile di un’opera fortemente schematizzata e riduttiva, vedi tutte le scene che riguardano la corte regale spagnola, (troppo smaccatamente” forzate” nella loro eccessiva intenzionalità “sottolineante”) o la “definizione” tutt’altro che esaustiva, seppure in forte controtendenza, di una insolita Maria Stuarda (esangue tessitrice di trame e di complotti), che rende qui meno centrale il conflitto fra le due rivali al trono di quanto non risultasse il duello ugualmente al femminile incluso nella prima parte. Se qualcosa di positivo resta di questo disastro annunciato, lo dobbiamo - come ho già accennato - al talento senza limiti nuovamente travolgente e assoluto della Blanchett, alla concreta professionalità senza cedimenti di Geoffrey Rush, oltre che all’indiscusso fascino di Clive Owen, all’aderenza appassionata degli altri interpreti (Jordi Mollà, Abbie Cormish, Samantha Morton e Tom Hollander, solo per citare almeno i più significativi fra la folta galleria di caratterizzazioni tutte sintonizzat4e sulla giusta lunghezza d’onda) e alla “creatività” puntigliosamente certosina dei magnifici costumi, non certo alla piatta “descrittività” ampollosa del regista, né tanto meno alla ossessiva, magniloquente, detestabilissima invadenza del supporto musicale così enfatico, prolisso e disturbante, da risultare davvero sgradevole. Ci sono comunque molte scene che “vorrebbero” definirsi memorabili (alcune forse lo sono) fra la grandiosità esasperata della tempesta che porterà alla distruzione della Invincibile Armada (indubbiamente suggestiva, ma a mio avviso “dichiaratamente computerizzata”, quasi di “cartone”, cosa questa che le toglie gran parte del fascino e della attendibilità, e citazionismi che attingono alle più disparate fonti (non solo la pittura, ma anche un – forse non voluto – ma certamente evidentissimo richiamo di un “celebrato” videoclip di Annie Lennox nella scena sulla scogliera) ma che contribuiscono ad aumentare “il distacco” emotivo dalla rappresentazione.

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