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Premonition

Regia di Mennan Yapo vedi scheda film

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La recensione su Premonition

di lussemburgo
8 stelle

Nella perdita improvvisa del marito, la vita di Linda si sfalda, il senso preciso dei giorni e della ripetitiva quotidianità scompare, il tempo si muove discontinuo perché la logica apparente della realtà è venuta meno. Il sonno non dà conforto ma preannuncia un'altra giornata nel flusso intermittente di una tragedia incomprensibile. Premonition è costruito come un thriller psicologico con venature paranormali, e il regista pare seguire le orme di Shymalaian, costruendo scene dilatate il cui realismo è incrinato dall'ipotesi fantastica. Benché la struttura a suspense, la trama misteriosa e l'andamento criptico richiedano una spiegazione esauriente, la sceneggiatura la rifiuta. Il film pare smarrire il suo fulcro rimettendosi all'incapacità di capire la vita, lasciando che la sua contraddittoria corrente ci trasporti. Segue invece un precetto quasi buddista, tendenzialmente new age, sull’illusorietà di ogni cosa, che però contrasta con il riferimento esplicito alla religione cattolica, al bisogno perentorio di cieca fede direttamente espresso da una scena centrale.
Anche lo spettatore deve rinunciare alla verità di un chiarimento univoco per apprezzare il film, lasciarsi trasportare dalle immagine e dal senso dei dettagli, guardare l'insieme da fuori, osservarlo oggettivamente allontanandosi dal personaggio centrale che gli imprime un moto centripeto. Solo allora la tragedia interiore acquista senso, la confusione si appiana. Bisogna andare contro la stessa scelta registica e la soggettività imposta per leggerla come espressione patologica di un microcosmo infranto, i cui pezzi non si ricomporranno mai, schegge di specchi e vetri che indicano un forma persa di cui rimangono dolorose tracce, pericolosi frammenti capaci di ferire e incidere la carne.
Premonition racconta soprattutto la crisi esistenziale di una donna afflitta dalla perdita di un sogno d'amore e di felicità, di una fede laica in quella coerenza imposta dalla vita che si è scontrata e ed stata disfatta dalla concretezza quotidiana degli obblighi e degli affetti, la cui evidenza si era già manifestata prima dell'incidente. Dopo il quale, però, i limiti della verità diventano evanescenti, vaghi e labili, mentre corpo e mente non riconoscono volti ed eventi, rimangono a tutto estranei nel continuo confuso tentativo di capire e ricostruire il contesto.
Sebbene narrativamente si sforzi di sondare la mente del personaggio della Bullock, il film diventa soprattutto un documento sul corpo dell'attrice, quasi sempre in primo piano, presente in ogni inquadratura e capace di suggerire e sfumare sentimenti con pochi accenni, con un bravura ben poco sfruttata al cinema (ad eccezione di Barbet Schroeder) che la relega ai confettini romantici di seconda fila. Un corpo apparentemente troppo perfetto, un viso quasi di plastica, che sembrano animarsi improvvisamente di scosse di vita e vitalità violente nel dar consistenza ad una casalinga ossessiva e compulsiva, annullata nel proprio ruolo, in un'esistenza guardata da dietro ad un vetro, nel boccale artificiale dell'equilibrio domestico, in cui fluttuano simili i giorni e le persone amate, mentre le discrepanze si celano nella rifrazione del liquido amniotico di un'armonia familiare postulata come tale.
Linda ritrova la forza di tornare a vivere in prima persona, senza derivare la felicità e l'equilibrio dalle persone vicine, diventate improvvisamente pedine e comparse di un incubo psicanalitico. La sua odissea è la presa di coscienza regressiva e traumatica della necessità di una nuova vita, nascosta nel film da una riorganizzata scansione cronologica che è solo una ricostruzione ad intermittenza degli eventi, la metafora della interiorizzazione di un trauma e insieme l'elaborazione di un lutto gravato dal senso di colpa e mascherato dalle autodifese che la mente escogita senza palesarle.

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