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Sleuth - Gli insospettabili

Regia di Kenneth Branagh vedi scheda film

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La recensione su Sleuth - Gli insospettabili

di ROTOTOM
8 stelle

Raffinatissimo noir a due, Sleuth, remake de “Gli insospettabili” ma rinfrescato se non riplasmato in toto dall’ancora fresco Premio Nobel Harold Pinter. Jude Law, efebico e sensuale rifà ciò che Michael Caine faceva nel primo bellissimo film, il quale prende il posto di Lawrence Olivier nella parte del mefistofelico Andrew Wyke, miliardario tradito dalla moglie proprio con Law, Milo, in scena.
Dirige Kenneth Branagh. I due attori, bravissimi, ma con menzione d’onore per Caine, rendono vitale un gioco mortale in interni ipertecnologici, dove la percezione dei punti di riferimento delle identità viene costantemente deflagrato e ricomposto in materia nuova e ingannevole. Gadget tecnologici che idealmente sostituiscono e modernizzano ma non sminuiscono nel senso quei pupazzi meccanici che nel film originale erano occupazione e identità frammentata di Wyke/Olivier. Oltre ai due protagonisti, sempre in scena è infatti la villa del ricco scrittore che funge da guscio e da ideale specchio della vanità per il suo padrone che continuamente ne cambia gli aspetti, le luci, le riprese. Alter Ego di Branagh egli letteralmente imposta la regia del gioco al massacro con il suo giovane antagonista irretendolo in una girandola di luci, frammenti di cristalli, pareti mobili che cambiano la conformazione della casa come se fosse un organo vitale al servizio del diabolico piano per liberarsi dell’amante della moglie. Moglie che è la causa scatenante di tutta la storia ma che non compare mai, se non nei loro discorsi, donna presto messa da parte come pretesto di un incontro scontro che con il possesso della donna non ha più nulla a che fare, tramutandosi invece in una reciproca dimostrazione di potenza e di abilità mimetica, di sarcasmo e provocazione, di reciproco rispetto misto a voglia di sopraffazione. I corpi si riflettono e si moltiplicano, le identità si mischiano, i colori scandiscono il susseguirsi degli stati emotivi e ne cambiano la scena come un set di un teatro filmato. Non a caso Branagh regista d’impronta teatrale imposta il film come su un palco a quinte mobili dove l’esercizio della vanità si frammenta nell’ostentazione di opere d’arte, gioielli contesi, raffinatezze stilistiche di regia e di design. Il regista disegna letteralmente la storia, la segue e la modernizza moltiplicandone gli sguardi attraverso i monitor di controllo della villa, gli specchi, i bicchieri riflettenti immagini non sempre conformi alla realtà. Nulla punti di riferimento si diceva, ecco quindi una prima parte estremamente asciutta e stilizzata in cui il vecchio Wyke miliardario tradito tende la trappola ad un troppo ingenuo attore disoccupato e innamorato dell’altrui moglie, Milo. Ogni movimento di macchina, ogni parola, ogni parete a scomparsa e ogni sguardo di sfida è un filo di ragnatela teso e invisibile, mortale. Un gioco che riesce fino a quando la seconda parte mostra la vendetta del trasformista Milo, ancora identità violata, fratturata ed esposta, gioco su gioco, paura su paura fino alla resa dei conti, in cui l’oggetto del contendere, la moglie, non viene definitivamente accantonata quasi fosse d’ostacolo all’esercizio del potere dei due avversari. L’intralcio che si risolve nella tragedia, voluta forse terminare in un pareggio che lascia scontenti e rovinati entrambi, l’inganno finale che si gioca sul filo dell’ultima pallottola, dell’ultimo inganno ed in cui la casa, nelle sue perigliose altezze gioca uno scherzo forse non previsto. Non lo si saprà mai, non si saprà mai se l’ultimo sparo doveva essere realmente a salve o meno come fatto intendere da un rapido scatto di tamburo durante la falsa rapina; se l’ultimo scherzo non sia finito semplicemente male a causa di un imprevisto parapetto troppo basso. Non sapremo mai se veramente la donna avrebbe avuto alfine tutta quell’importanza millantata durante la storia. Sensazione rafforzata dalla sospetta continua intromissione telefonica di lei tra il gioco sempre più duro dei due contendenti, intromissione non confutata il che fa pensare ad una pedina nel gioco di Milo per umiliare ulteriormente la virilità di Wyke. Ma non importa, non è il finale che conta, è lo script di Pinter che importa perché è di rara bellezza, di sofisticato acume e velenosa ironia. Il sarcasmo che i due gentiluomini si scaricano addosso con la fredda gentilezza delle persone perbene è di magistrale efficacia drammatica, dialoghi secchi come mazzate, umorismo di grande raffinatezza e sottigliezza. Tenuti a distanza dall’overacting, Caine e Law si rendono quasi consci della macchina da presa di Branagh, traslata dalla realtà alla finzione dalle decine di telecamere che costantemente riprendono la scena, registrandola, diventando così occhio partecipe e fredde testimoni degli eventi che si svolgono nel teatro del massacro della lotta di classe, nel costante vilipendio delle reciproche virilità, esondando nell’omosessualità (ab)usata anch’essa come arma nei confronti del rivale, sfora nell’umiliazione sado-masochistica che prende la mano e muta il tutto in una commedia nera del grottesco, storia frammentata nei suoi stilemi e reimpastata follemente come sono reinventate continuamente le identità dei due prim’attori.
Una sorpresa, forse il film dell’anno, tecnicamente e formalmente ineccepibile, asciutto e dotato di uno stile di grande impatto, si esce divertiti e sorpresi e di questi tempi non è affatto poco

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