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Il treno per il Darjeeling

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su Il treno per il Darjeeling

di ROTOTOM
8 stelle

Film Soffice e multicolore, pastello. Ornamenti kitch e facce deliziosamente freak, irregolari. Non speculari. Primi piani di nasi storti, rotti, denti mancanti, baffi e barbe. Quadri naive in cui i personaggi galleggiano con le loro personalità frammentate e sparse come superstiti di un incidente aereo in un mare vitale e gioioso. Un railroad movie esistenziale tra le misteriose pieghe dell’India alla ricerca di una madre perduta e di un lutto paterno da elaborare. I tre fratelli Whitman, interpretati da Owen Wilson, Adrien Brody e Jason Schwartzman (anche autore della sceneggiatura) sembrano una seconda figliata dei Tenenbaum ma senza i talenti che li contraddistinguevano, estratti dal grigio monocorde delle loro vite e scaraventati sul treno per il Darjeeling, al quale non riesce ad unirsi un impacciato Bill Murray, rimasto all’asciutto dopo le sue coloratissime avventure nei panni di Zissou, sempre per Wes Anderson.
Il film si apre con un cortometraggio che in realtà è un prologo a tutti gli effetti, in cui Jason Schwartzman accoglie in una stanza d’albergo, l’Hotel Chevalier del titolo, una sensualissima Natalie Portman delicatamente “nature” dalla quale era scappato e il cui sguardo su una romantica Parigi si schianta sul palazzo di fronte al balcone che di Parigi impedisce la vista. E poi si parte, sul treno per il Darjeeling, con i tre fratelli componenti della ormai classica famiglia disfunzionale di Anderson, nevrotici e ossessivi, dolcemente tristi , alieni al mondo che li circonda. E’ lo stile che li trasporta, quello del regista texano, intellettuale un po’ snob e autoreferenziale sicuramente, autocompiaciuto nel mettere in scena storie esilissime sorrette da un’impalcatura di forma squisitamente personale per cui non c’è mai via di mezzo, o lo si ama o lo si odia. Da queste parti lo si ama, e molto, come uno dei registi/autori americani che come messa in scena e sensibilità si avvicina molto al gusto europeo, accostabile a Greenaway ad esempio per densità di riferimenti culturali benchè Anderson sia più pop o un Michael Gondry come cifra stilistica, estetica onirica e melanconica visto che le storie sono sempre un po’ più amare di ciò che sembrano. Quindi, straordinario gusto per l’inquadratura, densa di particolari e colori, simile a quadri che riassumono ognuno l’anima del film, suscitando nello spettatore uno spostamento di sguardo dalla “trama” generale e alla sua coerenza fatta di situazioni di surreale ironia, alla caratterizzazione delle scene atomizzata nei particolari, nei dettagli solo apparentemente insignificanti, alla composizione della tavolozza dei colori che trova nell’India una sua naturale collocazione come protagonista assoluta per vivacità e brillantezza. Ralenty ad effetto su borse di Luis Vuitton (disegnate apposta per il film in un trendyssimo color sabbia e intagli azzurri) lanciate per aria, i visi irregolari dei protagonisti ritratti come caricature, riti magici cialtroni figli di una percezione dell’India mutuata da reportage di Vogue o Cosmopolitan, treni che si perdono nel deserto, abiti, movenze, tic, sguardi, boccette di profumo. Sceneggiatura surreale radical chic di stampo intellettuale, dialoghi taglienti e sfoltiti da qualsiasi ridondanza, ingenuamente cattivi quanto sottilmente consapevoli di quella cattiveria. Stile, questo è importante per Anderson, che si attira le ire dei puristi del narrato, i talebani del “messaggio” che non riescono a inquadrare un film come questo, più da sentire che da capire, da lasciare scorrere con i commenti musicali, strepitosi, che si fondono con le immagini in un tutt’uno di bizzarra empatia. Quindi non importa in realtà che i tre fratelli finalmente comincino a fidarsi l’uno dell’altro e che la madre fattasi suora laica fugga non appena venga ritrovata. Non importa che il lutto della perdita del padre si elabori attraverso un altro lutto, quello di un bambino che i tre non riescono a strappare alle acque di un fiume ma la cui integrazione nel villaggio (splendide le scene, piccoli quadri di naive indiano) per assistere al funerale è forse la scena più bella e toccante del film, sebbene assolutamente non patetica né didascalica. Sono solo pretesti, sono parentesi. Tutto scorre, la vita scorre, come mostra una bellissima sequenza in cui tutti i personaggi sono ritratti in piccoli scompartimenti di treno, ognuno nel proprio “habitat”, ed ognuno è inevitabilmente legato al destino dell’altro come i vagoni. Treni che i tre fratelli prendono sempre al volo, come se ogni viaggio fosse un’ultima possibilità. Le valige di Luis Vuitton, eredità ingombranti del padre prendono il volo una ad una, vengono lasciate a terra, simbolo chic dell’elaborazione del lutto, del peso lasciato per strada e della vita ripresa, ancora un’ultima volta al volo. Mancanze e divagazioni. Perdite. Sottotesto non esplicito ma intuibile, pudicamente nascosto tra le magnificenze della scenografia che ammalia, della commedia che blandisce. Non si può sapere tutto della vita, un po’ bisogna intuirlo. Come quando si è in uno scompartimento di treno e si cerca di immaginare chi ci possa essere in quello adiacente. Una donna soddisfatta reduce da una doccia in una camera d’albergo; una tigre in agguato; una capanna di indiani silenziosi e fieri; una hostess del treno in lacrime. Chi lo sa. Chi sa chi è Bill Murray in realtà che perde il treno e non partecipa al film, pur facendo parte del grande treno per il Darjeeling, ritratto nel suo piccolo scompartimento? Ma è importante poi? Perdita di una madre, di un padre, di una vita sconosciuta. Un bambino. Perdita della fiducia, di una scarpa chic, inutile senza quell’altra. Personaggi che durano un minuto, un secondo, uno sguardo. Microtrame lasciate libere di sventolare al vento di altre storie. Cose importanti? Per Anderson si, fondamentali per costruire l’architrave invisibile che dovrà reggere i festoni colorati, le griffe, le finezze stilistiche. Un treno si perde nel deserto, nonostante il binario. Forse ha imboccato un bivio sbagliato. Surreale metafora, gentile e vestita di sole e colore, il viaggio dei tre fratelli è un zigzagare nella vita in cerca di un senso, della certezze perdute, quelle che formano il binario sul quale la vita viaggia. Non sempre le cose devono essere spiegate, la vita è piena di messaggi latenti, talmente palesi da non essere individuati. Le valige di Luis Vuitton non vediamo mai cosa di così prezioso contengano. E mai ci viene detto, dobbiamo intuirlo dall’eleganza della valigia stessa, unica, creata apposta. Snob.
Così è un film di Anderson, meravigliosamente snob, una valigia piena di promesse elegante e unica nel suo genere creata apposta per farne intuire il contenuto, condizione attuabile solo per gli esteti puri di cuore. Firmato Luis Vuitton, ovviamente.


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