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Espiazione

Regia di Joe Wright vedi scheda film

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La recensione su Espiazione

di spopola
8 stelle

Non si può definire un brutto film, ma è certo una bellissima occasione sprecata. Dal punto di vista strutturale, il rispetto della “tripartizione della storia” è assicurato. Ci sono però troppe semplificazioni che, nonostante il colpo d’ala della parte conclusiva, contribuiscono a rendere abissale la distanza dal geniale impianto del romanzo.

E’ possibile dare un giudizio uniforme e “complessivo” su “Espiazione”, viste le differenti modalità di impatto (anche emotivo) che ha sullo spettatore (o per lo meno ha avuto su di me) nelle varie fasi della rappresentazione - giustamente “rispettosa” della scomposizione della linea temporale mutuata dal racconto da cui trae origine – nel mostrare da differenti punti di vista e posizioni, le implicazioni e le conseguenze di un terribile “atto d’accusa” che segnerà indelebilmente molti destini dal tragico epilogo? Confesso che rimane a mio avviso un compito abbastanza difficile (per non dire problematico, che forse è il termine più appropriato e pertinente) che potrei sintetizzare in un laconico “due ottime parentesi con un centro dalle troppe zone d’ombra”, il che risulterebbe comunque in ogni caso assolutamente (e ingiustamente) riduttivo data la complessità delle tematiche trattate e gli evidenti sforzi compiuti per tener testa alla scrittura “a strati” del romanzo, anche se alla resa dei conti si devono registrare molte concessioni all’ovvio e un risultato che denota purtroppo l’incapacità (o il coraggio) di “osare” fino in fondo anche oltre le regole imposte dalle convenzioni (un budget troppo alto da rispettare ed onorare che ha reso titubante la mano?), che si estrinseca nelle molteplici – e ingiustificate - “scivolate” fortemente disturbanti, proprio nella parte che avrebbe invece richiesto maggior controllo e determinazione, per le “difficoltà oggettive” a restituire con le immagini tutte le esatte “percezioni” (o chiavi di lettura) dei fatti e delle situazioni che solo nel finale avranno la possibilità di rivelarsi per ciò che in effetti erano e per quello che invece intendevano “rappresentare”. Dal punto di vista strutturale, se non si voleva davvero banalizzare il tutto, era vincolante il rispetto della “tripartizione della storia”, cosa questa che lo sceneggiatore e il regista considerano e mettono in pratica con encomiabile aderenza e adeguate differenziazioni (anche stilistiche) per rendere meno accidentato il percorso di chi osserva, ma poi però non tutti i segmenti risultano essere costantemente e coerentemente controllati (o “dominati”) da una uniforme “qualità” dello sguardo che mai come nel caso in esame sarebbe stata invece necessaria, e questa è proprio una delle più profonde e laceranti “smagliature” che emerge dalla visione. Nell'insieme insomma (ed è un vero peccato), una “incompiuta” che lascia molto amaro in bocca per la bellissima occasione sprecata, anche se non si può certo definire un brutto film, “cedimenti centrali” a parte. Alcuni “passaggi” risultano però a dir poco “imbarazzanti” (e questo non può oggettivamente essere marginalizzato né sottostimato perché rappresenta una pesante falla che rischia di far pendere la bilancia verso il basso). Mi riferisco ad alcune semplificazioni platealmente esibite che spesso rasentano il calligrafismo e contribuiscono – nonostante il colpo d’ala della parte conclusiva – a rendere stridente la distanza dal geniale impianto organizzato da Ian McEwan che va oltre la storia e i personaggi che la rappresentano. La parziale “delusione”, dopo un avvio molto promettente, deriva soprattutto nell’immaginare, proprio nel momento in cui gli elementi diventano più significativi e “complessi”, che cosa poteva diventare questo soggetto ove fosse stato affidato alla sensibilità di un regista intuitivo – un AUTORE nel vero senso della parola – capace a sua volta di “creare” reinventandola, la sintonia con il significato più profondo dell’opera (chissà perché mi viene in mente il nome di Clint Eastwood, che – per rimanere sul tema della “passione” - è riuscito a rendere sublime sullo schermo un mediocre romanzo quasi rosa come “I ponti di Madison County” o a rappresentare l’epicità drammatica di un conflitto mondiale senza dimenticare la dimensione umana dei personaggi!!!). Wright non possiede purtroppo qualità analoghe (del resto la sua precedente sconfortante prova con “Orgoglio e pregiudizio” rispetto alla quale questo è un indiscutibile e notevole passo in avanti, non lasciava molte illusioni concrete già sulla carta) ed ha per questo nuovamente rischiato con i numerosi deragliamenti verso l’oleografia cartolinesca di alcune “opzioni” della parte centrale, di volgarizzare anche questo capolavoro assoluto dalle tematiche persino “spiazzanti”, comunque dense di eversive “perversioni”, crudeli e tenere allo stesso tempo, salvandosi spesso in corner grazie proprio al “fascino magmatico” del racconto. Ha però perso – ed è una evidenza incontrovertibile - il “treno” che gli avrebbe consentito solo con un po’ di coraggio in più e meno condiscendenza al budget milionario, di fare col cinema una operazione analoga a quella che lo scrittore fa con la parola: una riflessione apodittica sulle invenzioni (e le convenzioni) della narrazione per quanto riguarda l’aspetto della “creazione” e della spesso conseguente e inevitabile “manipolazione” della realtà che ne deriva. Proprio in questo senso avverto prepotente la mancanza di un “anticipo” in immagini che dia “spessore preparatorio” e restituisca davvero anche attraverso la forma cinematografica il senso profondo di un passo determinante e “definitivo” come questo: “IL PROBLEMA IN QUESTI 59 ANNI E’ STATO UN ALTRO; COME PUO’ UNA SCRITTRICE ESPIARE LE PROPRIE COLPE QUANDO IL SUO POTERE ASSOLUTO DI DECIDERE DEI DESTINI ALTRUI LA RENDE SIMILE A DIO? NON ESISTE NESSUNO, NESSUNA ENTITA’ SUPERIORE A CUI POSSA FARE APPELLO, PER RICONCILIARSI, PER OTTENERE IL PERDONO. NON C’E’ NULLA AL DI FUORI DI LEI. E’ LA SUA FANTASIA A SANCIRE I LIMITI E I TERMINI DELLA STORIA . NON C’E’ ESPIAZIONE PER DIO, NE’ PER IL ROMANZIERE, NEMMENO SE FOSSERO ATEI. E’ SEMPRE STATO UN COMPITO IMPOSSIBILE, ED E’ PROPRIO QUESTO IL PUNTO. SI RISOLVE TUTTO NEL TENTATIVO”. E’ certamente questa l’espressione, il “succo” finale estremamente chiarificatore, delle effettive intenzioni dell’autore (che costituisce la base per una riflessione amaramente problematica e anche particolarmente complessa che meriterebbe una analisi molto approfondita, più che per trovare delle effettive risposte, per tentare di “comprendere” davvero il “tormento” della creazione artistica, al di là della qualità eccelsa della scrittura che attraversa tutta l’opera). Il renderla percettivamente predominante anche sullo schermo, avrebbe permesso di far diventare ancor più straziante e inaspettato il portentoso “coup de théâtre” già vivificato dalle intuizioni narrative della sceneggiatura (una meditazione lacerante sulla “irreparabilità” della colpa e sulla impossibilità dell’espiazione, un itinerario simbolico verso una probabilmente impossibile liberazione che definisce comunque la inevitabile presa di coscienza del peso delle proprie responsabilità e della inesistenza pratica di una procedura che permetta davvero di rimediare, se non attraverso una “metafora” che potrà restituire, ma solo in un’altra dimensione anche temporale, quel futuro negato nella realtà oggettiva, e forse per questo non in maniera tale da permettere davvero di placare definitivamente i rimorsi della coscienza) che l’eccezionale bravura della Redgrave rende incandescente e indimenticabile, un momento così doloroso e sconvolgente, che lascia davvero senza fiato per ciò che evidenzia ed esplicita. Nell’analisi dettagliata dell’opera comunque, nella valutazione dei “pro” e dei “contro”, posso confermare la positività dell’intera prima parte, non solo per l’accurata ambientazione (ma poteva essere evitato l’utilizzo di una incisione abbastanza recente della Bohéme, optando per una più pertinente e “conforme” registrazione d’epoca, perché la ”modernità” esecutiva di ciò che si ascolta, “stride” in maniera evidente all’attento osservatore, e non semplicemente perché “si sa” che le voci sono di decenni posteriori, ma perché si avverte questa dicotomia temporale che diventa fortemente anacronistica e fastidiosa). Il regista infatti con le sue variazioni temporali e l’indagine ossessiva del particolare, quel suo soffermarsi sul dettaglio per riproporre in prospettive diverse avvenimenti che assumono definizioni molto differenti e diversificate, addirittura quasi in antitesi, quel circoscrivere l’ambiguità dell’elemento osservato per evidenziare la difformità fra ciò che è reale e quello che si percepisce e sottolineare impietosamente la differenza esistente fra ciò che effettivamente si “vede” e ciò che invece si “vuol vedere” (o che ci si illude di vedere) restituisce in maniera adeguata, pur “invertendo l’ordine dei fattori” rispetto al romanzo, “lo spirito e il senso” delle suggestioni di ciò che sta all’origine dell’evento catartico che determinerà il dramma e la tragedia (non è mai un problema di “rispetto” assoluto, anzi!! Spesso si riesce a essere maggiormente aderenti attraverso piccole e grandi “infedeltà”, perché le diverse modalità di espressione, impongono inevitabilmente “tradimenti” spesso necessari per centrare lo stesso obiettivo). Quell’andamento sincopato fornisce quindi la giusta dimensione per creare la “base” (grazie anche alla sorprende prova della giovane Saoirse Ronan che è forse la migliore in campo - dopo la strepitosa Redgrave del finale - in un cast particolarmente indovinato e aderente, indiscutibilmente molto al di sopra della media - ed è davvero capace di “freddare” con uno sguardo la effettiva (in)consapevole consistenza del suo punto di vista un po’ rancoroso, nel voler scorgere ad ogni costo il male e attribuirne la paternità, per troppa fantasia o inconscio desiderio di rivalsa). Rimane però fortemente impressa nella memoria anche la “deicizzazione” del personaggio di Cecilia, fredda e irrequieta, fissata, nel momento del forzato distacco dall’amato, sulla porta dell’avito maniero, sbigottita e affranta, incredula e furente ma incapace di “opporre resistenza” attiva, nello splendore disarmante del verde smeraldo de quel suo ormai “inutile” abito da sera che la rende quasi spettrale. E la conclusione, repentina e straziata, è una di quelle intuizioni “speciali” che -come giustamente osserva Morandini – potrebbe da sola essere sufficiente a salvare l’intero film e a giustificarne la visione, e non solo per la prova dell’attrice che – ripeto - è superlativa, ma anche per le sottili implicazioni che si distanziano dalla scrittura originaria, amplificando il senso disperato della “resa” per la consapevole evidenza della progressione di una malattia devastante che porterà alla prossima, definitiva perdita della memoria che rende necessaria la non più procrastinabile “restituzione” di quell’epilogo felice che una stupida bugia ha reso impossibile, prima che tutti i ricordi siano davvero smarriti e anche i personaggi si dissolvano per sempre (si potevano solo evitare il kitsch del corpo fluttuante di Cecilia in quel liquido amniotico che la rende simile ad una ameba, dopo lo scoppio nella metropolitana, o la dimensione “convenzionale” del “ricongiungimento finale” fortemente “disturbato” dall’utilizzo dell’abusato e consunto sfondo delle “bianche scogliere di Dover”). Nel “centro” però se l’asino non cade del tutto, spesso inciampa, e allora assistiamo a momenti e soluzioni anche “visive”, che lasciano molto a desiderare, tra compiacimenti e “cadute” discutibilissime (molto più numerose che nelle altre parti) che evidenziano l’incapacità del regista (a volte sembra persino che abbia scambiato McEwan per Liala, il che è tutto dire) di coordinare al meglio la complessità della materia proprio nelle sequenze che necessiterebbero di una messa a fuoco maggiormente “equilibrata” o anche, in alternativa, più “estremizzata” e “fantasiosa”. Intendiamoci, nemmeno qui tutto è da buttar (vedi il virtuoso e “potente” lunghissimo piano-sequenza sulla spiaggia di Dunquerke, davvero “corposo” e creativo, un indiscusso pezzo di bravura che riesce bene ad evidenziare, al di là della perizia tecnica, l’inutile crudeltà della guerra e la stupidità di chi è chiamato a “gestirla” indipendentemente dalle ragioni che possono averla resa “inevitabile “ e forse persino giusta), ma ci sono troppi “idilliaci” campi di papaveri rossi che smorzano la tragedia dello smarrimento di Robby annacquando persino il dramma della sua ferita, a fare da contro-canto, troppa retorica insistita nei cori “ornamentali” dell’attesa, per non parlare dell’accademismo decadente e compiaciuto della proiezione “riesumata” dei primi piani di Jean Gabin e la Morgan dal “Porto delle nebbie” di Carné che francamente mi hanno fortemente irritato per quel privilegiare su tutto il cotè romantico dell’amore “semplicemente impossibile” o reso tale (un tentativo di adeguarsi all’oleografia insistita del “Paziente inglese” per tentare di bissarne il successo planetario, certamente in questo caso comunque non riproponibile, almeno qui in Italia, come i risultati stanno a confermare?). Meglio costruita allora la “durezza” della vita negli ospedali, la presa di coscienza “espiativa” attraverso il contatto con il dolore delle ferite, e il confronto con la morte (ma la scena col soldato francese… non è di per sé un’ulteriore sottolineatura patetica troppo insistita?) fra le molte “divagazioni” anche formali utilizzate per non permettere allo spettatore di “prendere per oro colato” tutto ciò che vede e l’obiettivo finale non sempre centrato di cercare di mantenerne attiva la “distanza critica” (e l’intervista finale alla Bryony della maturità sfiorita, fornirà poi la “giustificazione”” di questo andirivieni fra “realtà” e “immaginazione”). Della Redgrave e della giovane Ronan ho già accennato e non resta che sottolineare ancora la loro eccezionale bravura. Si affiancano e si amalgamano perfettamente tutti gli altri: una ieratica, distaccata, “intoccabile e glaciale” Keira Knightley, una sofferta Romola Garai e un “necessario” James McAvory, che conferma e amplia le impressioni positive della sua maiuscola prova resa ne “L’ultimo Re di Scozia”. Un po’ sacrificata, ma ugualmente pertinente, Brenda Blenthyn nella breve parte della madre del protagonista. Che classificazione dare allora? Beh.. forse sarà la “suggestione” attiva del romanzo, ma nonostante le riserve, opto in ogni caso per uno “striminzito” positivo.

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