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L'età barbarica

Regia di Denys Arcand vedi scheda film

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La recensione su L'età barbarica

di spopola
6 stelle

Il pessimismo è ancora cosmico, la satira pungente, le annotazioni critiche corrosive, eppure questa volta c’è qualcosa che non quadra in questa apocalittica visione di una società in declino che scivola, senza più alcuna speranza verso una nuova e definitiva catastrofe: tutto resta sospeso e stenta a definirsi con la necessaria compiuta esattezza

Il pessimismo è ancora cosmico, la satira pungente, le annotazioni critiche corrosive e profonde, eppure questa volta c’è qualcosa che non quadra del tutto in questa apocalittica visione di una società in declino che scivola, senza più alcuna speranza di redenzione, verso una nuova e definitiva catastrofe (il titolo originale, molto più pertinente e appropriato e sicuramente meno “furbetto” di quello scelto per la versione italiana, è al riguardo particolarmente eloquente e significativo, la dice insomma lunga sulle intenzioni primarie del suo autore). Viene in un certo senso a mancare – ed è un vero peccato - il magico equilibrio raggiunto con “Le invasioni barbariche”: l’attenta e puntuale “osservazione” del mondo che ci circonda, è analogamente tragica e sconvolgente (pur se i toni sono quelli più leggeri della commedia), ma il tutto resta sospeso in una indecisa “forma” che stenta a decifrarsi con compiuta esattezza, sospesa fra troppi “generi” (e modalità) che spaziano da quelli surreali quasi fantascientifici dell’inizio a certe parentesi di derivazione kafkiana, fino a stemperarsi in insolite direzioni che a volte sembrano voler “rasentare” l’inconsistenza colorata del musical (come analogamente “contaminate” sono le scelte che riguardano la colonna sonora). Il protagonista, Jean-Marc Leblanc (ottimamente rappresentato sullo schermo dalla straordinaria performance di Marc Labrèche) è un mediocre personaggio di agghiacciante normalità, infelice, cinico, incolore, incompreso e disamorato (un disperato “uomo senza qualità”, potremmo definirlo, citando forse impropriamente Musil) che ha bisogno di trovare una qualche impossibile compensazione alle sue frustrazioni quotidiane per trovare un elementare (quanto instabile) equilibrio che gli consenta di rimanere a galla. Poiché non è in grado (né ha probabilmente voglia) di modificare la realtà, ha il bisogno di ricorrere a una differente e più artificiale forma di “redenzione”, evadendo nel fantastico mondo dei sogni, dove “tutto è possibile” e persino la vita può essere addomesticata e adeguata alle proprie esigenze. Ed è proprio il sogno (anche ad occhi aperti) la sua momentanea ancora di “salvezza”, la dimensione “altra” che gli fornisce una ipotesi di speranza e di riscatto, ma che non è altro che una impropria e passiva forma di resistenza per cercare di esorcizzare l’oscurità che progressivamente lo avvolge e lo annulla, ovviamente però così metafisicamente astratta, da non essere sufficiente per combatterla o scongiurarla. L’evidente contrapposizione “disincantata” e crudele fra la deludente quotidianità (la dimensione nella quale il regista stigmatizza i vizi, le “depressioni”, le incomprensioni e le impietose “regressioni” qualunquiste del presente), anticamera di un futuro ancor più grigio e “minaccioso”, contagiato e corroso (ormai “irrecuperabile” alla decenza, che trova sostentamento proprio nelle sue aberranti anomalie, fra assurdi divieti, malattie sempre più invasive, devastanti e ramificate, e si “nutre” dei “riti” infestanti della quotidianità “normalizzata” ossessivamente ripetitivi come gli squilli “reiterati”, quasi inquietanti dei cellulari che “annullano” il contatto reale e rendono impossibile la comunicazione di interscambio verbale, determinando isolamento e incapacità di ascoltare, di comprendere, di rapportarsi costruttivamente con chi ci circonda), e quella che potremmo definire “della oniricità salvifica” del pensiero e dell’immaginazione, dove tutto può essere ribaltato e reso accessibile (il successo, le fortune amorose, persino il potere e la determinazione) è in effetti la struttura portante dell’opera, il percorso privilegiato da Arcand per cercare di rendere più evidente (e insopportabile) la superficialità che ci ammorba, quasi facessimo finta di non riconoscere la desolazione poco rassicurante che ci assedia e che non lascia intravedere alcun riconoscibile “germe”, sotterraneo ma presente, che possa indurre alla fiducia in una ipotesi di cambiamento (o di inversione di rotta). L’impero romano si è ormai definitivamente sfaldato, le orde barbariche hanno saccheggiato le nostre coscienze, e siamo definitivamente precipitati nel medioevo della contemporaneità degradata dove nessuno è più in grado di dare “risposte adeguate” o sufficientemente rassicuranti, perduti nel frastuono dei clacson e della musica “compulsiva” incollata agli orecchi degli adolescenti e non solo, sperduti nell’indifferenza, e travolti dal traffico caotico e inquinante delle città. La dimensione di Jean-Marc, insulso travet senza domani, guizzi o ambizioni, è proprio questa, alienata ed alienante, e non rimangono allora che i sogni a sostenerlo che, per quanto piccoli, borghesi, cinicamente insignificanti o semplicemente “personalistici” possano essere, restano davvero l’unico baluardo “attivo” per contrastare la caduta, e tentare di ricomporre l’humus necessario per la sua sopravvivenza ora che ogni forma di umanesimo e di “amicizia” è definitivamente naufragata (un universo di minima ma “confortevole” e rassicurante che recupera stima e sicurezza, privilegiando il ripristino dei rapporti smarriti in seno alla famiglia e nella società e la “rinascita” delle passioni) e la momentanea “rivincita” su quella solitudine esistenziale sempre più insopportabile e sempre meno combattuta. Sogni narcisistici e consolatori, banali quanto patetici, che fanno perno sulla maschilistica “fissazione” sessuale che lo (ci) corrode e che può finalmente esplicarsi, consentendogli una volta tanto di affermarsi, diventando un ricercato oggetto del desiderio, venerato e coccolato da una schiera di stupende femmine che lo apprezzano e non “discutono”, sottomesse e disponibili. Ingabbiato nell’incubo reale che lo circonda, ecco che Jean-Marc non ha altra alternativa che quella di inventarsi quel mondo di fantasia estemporaneo (una specie di “Sogni proibiti” aggiornato ai tempi e alle mutate condizioni e per questo meno consolatorio) nel quale può alimentare i suoi miraggi di gloria e diventare seduttivo, fino ad avere rapporti persino con una star del cinema. Un mondo alternativo nel quale può inventarsi orribili vendette sadomaso contro l’inflessibile capoufficio che lo tartassa, e ritornare così ad “esistere” (a percepirsi) attraverso quella crescente esposizione mediatica che lo porterà ai vertici della notorietà, fra interviste televisive sempre più appaganti e bagni di folla plaudente. Questa in sintesi la storia, ma il percorso risulta “oscillante”, anche se la scrittura è come al solito “densa”, puntuale e assolutamente non convenzionale. Insomma, pur con le costanti sottolineature grottesche, non c’è pietà né consolazione per alcuno, ma solo una entomatologica osservazione scevra da ogni “comprensione identificativa” verso i personaggi che descrive, tutti – protagonista compreso – detestabilmente antipatici. Forse è proprio la “raggelante” sensazione dell’esperimento in vitro (nessun timore però, non si tratta di “astratto intellettualismo”: come nei precedenti film di Arcand che compongono la trilogia, anche qui si sorride spesso, ma lo si fa con amarezza, le labbra sono tirate, e il senso di vuoto che attanaglia, così esplicito da trasformarleo sovente in una smorfia di dolore). Con questa sua ultima fatica Arcand ha semplicemente commesso un “peccato di presunzione”, calcando eccessivamente la mano e senza prevedere “modelli” alternativi di bilanciamento, rendendo così fin troppo esplicite e definitive le sue metafore catastrofiche. Qui c’è solo incomunicabilità e cinismo, e anche l’evasione del sogno assume alla fine (un po’ “deludente” la conclusione) l’improbabile dimensione di una ulteriore “alienazione”, quella dei giochi di ruolo (altra gramigna infestante dei tempi moderni) nella regressione assoluta non solo dell’abbigliamento, ma anche comportamentale, verso quei secoli bui e lontani che non erano certo migliori né più rassicuranti del presente. E rimaniamo allora spettatori esterni e distratti, solo parzialmente consapevoli (forse pericolosamente scettici) che “quell’età delle tenebre” preannunciata dal titolo (in originale, naturalmente) è gia intorno e dentro di noi e ci sta corrodendo.

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