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Alexandra

Regia di Aleksandr Sokurov vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Alexandra

di yume
9 stelle

Nel contrasto "materiale" fra la macchina della guerra e il corpo fragile dell'ottantenne Alexandra c’è tutto, il respiro narrativo dell’epos, il pathos sconfinato della tragedia e infine la leggerezza melodica della lirica che scava fino a lasciar trasparire, con un rapido guizzo, l’emozione dal breve frammento.

 

SINOSSI

Una nonna, Alexandra, fa visita al nipote, un capitano di 27 anni, e trascorre tre giorni a Grozny, in Cecenia, dove il giovane è in missione. Situazioni che nascono per caso, brevi incontri commentati da scarni dialoghi, un campo militare e il paese poco distante. La guerra è sullo sfondo, disancorata dalla storia quotidiana dei personaggi, presenza muta e indescrivibile .

 

“Per me, questa non è una storia che ha a che fare con l’attualità, ma con ciò che è eterno. Non racconta della Russia di oggi, della sua politica nel Caucaso, del suo esercito, ma una storia senza tempo. Non c’è guerra in questo film sulla guerra. La guerra è sempre terribile. Le operazioni militari non sono riprese o rappresentate. Non amo i film di finzione sulla guerra; mi è bastato aver visto una volta sola la guerra vera perché tutti quegli attacchi spettacolari, quelle esplosioni colorate, quei corpi cadenti in ralenti mi evocassero un’idea di volgarità e di finzione. Non c’è alcuna poesia nella guerra, alcuna bellezza. Non bisogna filmare la guerra in modo “poetico”, l’orrore è inesprimibile, così come è inesprimibile l’umiliazione dell’uomo di fronte alla guerra. E per comprendere l’uno e l’altra, basta aver vissuto la guerra anche una volta sola. Alexandra è stato per lungo tempo il titolo provvisorio del film. Poi i due produttori, francese e russo, mi hanno chiesto di lasciarlo. Nel nome Alexandra c’è infine una radice universale. È un nome semplice, che traccia una strada che arriva dritta al personaggio.” (Aleksandr Sokurov, 2007, dal pressbook del film)

 

Come Tarkovskij, di cui è l’erede, Sokurov sa come introdurre la creazione di sogni all'interno dell'arte del cinema. Realismo metafisico, così si potrebbe definire il suo recuperare le istanze più profonde del visibile con quello sguardo invisibile che accompagna lo spettatore a interrogare la storia, spiegare l'arte, indagare la cultura, decodificare tratti dell’ esperienza umana usando l’ immagine-movimento, nel senso dato da Deleuze a questa espressione.

Sokurov usa il cinema nella convinzione che al cinema spetti il compito difficile rendere il reale meno effimero...

"Che cos'è un imperatore? Non è altro che un uomo chiamato così, nient'altro che un'ombra. Che cosa si definisce imperiale? Qualcosa di inventato, di artificiale. La grandezza che non esiste. Magari abiti

in un bell'appartamento, in un edificio magnifico, milioni di personeconoscono il tuo nome, sei ricco, e poi un bel momento il tuo cuore cessa semplicemente di battere. E finisce tutto. È la forza banale

della morte, la forza banale della fine della vita umana!" (Aleksandr Sokurov 2007, ibid.)

 

… ed essere oltre l’attualità ma dall’attualità trarre ciò che dà sostanza al racconto:

 

“Non c’è niente di attuale in Alexandra. Non c’è una sola parola che non sia stata pronunciata già quaranta anni fa. E non sono sicuro che, tra quaranta anni, sarà cambiato qualcosa. Nel film parliamo di cose che vanno oltre i confini russi. La mia eroina potrebbe essere un’americana che fa visita al nipote in Iraq, così come una nonna inglese in Afghanistan. Conosco il prezzo terribile pagato per la pace dalla Cecenia. I tanti crimini e la crudeltà di coloro che vivono gli orrori della guerra. Ma adesso dobbiamo riunirci, rispettando reciprocamente le vittime.”

(Aleksandr Sokurov 2007, ibid.)

 

Occhio che si prende tutto il tempo necessario, nel passo lento e affaticato di Alexandra che si muove tra le baracche Sokurov trova il ritmo del racconto e lo sguardo sa dove fermarsi.

Nel film niente è detto esplicitamente, niente che sia moralista - così la protagonista, Galina Vishnevskaya, grande cantante lirica moglie di Mstislav Rostropovitch,morto poco tempo prima della presentazione del film a Cannes- La storia dei protagonisti rimane fuori. Si lascia intendere che questa anziana donna è stata forse in passato un’insegnante, moglie di un militare, così come militare è il nipote. É certo una donna russa, attraverso i cui occhi viviamo la vicenda (...) La cosa più difficile è stata riuscire a scendere dal carro armato (anche in senso metaforico). Scendere dal carro armato e trovare una via pacifica è la cosa più difficile per tutti oggi in Cecenia.”

(dal pressbook del film)

 

La scelta della protagonista è la carta vincente del film:

 

Ho sentito la sua voce per la prima volta quando ero ancora studente. Una voce straordinaria. Più tardi, ho visto alla televisione un estratto dall’opera Katerina Izmailova di Shostakovich ed è lì che ho scoperto il suo viso. Anche il suo viso era straordinario, Ho trovato in Galina Vishnevskaya ciò

che non ho trovato in nessun’ altra: una persona bella, in totale armonia con sè stessa e dotata di una voce unica.”. (Aleksandr Sokurov 2007, ibid.)

 

Nel contrasto "materiale" fra la macchina della guerra e il corpo fragile dell'ottantenne Alexandra c’è tutto, il respiro narrativo dell’epos, il pathos sconfinato della tragedia e infine la leggerezza melodica della lirica che scava fino a lasciar trasparire, con un rapido guizzo, l’emozione dal breve frammento.

Alexandra è una nonna dal corpo invecchiato e stanco, ma “la mia anima può vivere ancora un’altra vita”, dice in uno dei rari dialoghi del film, poche frasi, battute brevi, spesso solo accennate.

Necessario vedere il film sottotitolato, ascoltare il fruscio sonoro di quella lingua, interrotto solo dai silenzi o dall’ingresso degli intermezzi per archi di Andrej Siegle del Teatro Mariinski di Valerj Gergiev.

 

Con una valigetta su due ruote, Alexandra arriva al campo russo di stanza nella Cecenia occupata per vedere il nipote, Denis (Vasily Shetvtsov), lontano da sette anni.

Resterà due notti e un giorno, ospitata nella baracca del giovane, poi salirà di nuovo su quello che sembra un treno merci, nel mattino di caldo soffocante, mentre Denis parte per una delle tante spedizioni di guerra e di routine.

Lui è un professionista, combatte per mestiere, è povero e quindi non può sposarsi, dice alla nonna, che gli promette, partendo: “Te la trovo io una bella moglie!”.

 

Sokurov, in novantadue brevi minuti, ci squaderna davanti un intero mondo di vite vissute, paesi devastati, guerre diventate un vizio assurdo, giovani vinti che crescono nell’odio e così perdono l’innocenza dei bambini e giovani vincitori che, per un attimo, ricordano cos’era il calore di una famiglia e trattano la nonna con brusca tenerezza, le sfiorano la mano, le mettono il vasetto col fiore sul tavolo.

 

Un film che racconta la guerra partendo da una prospettiva minima, un angolo di accampamento, l’interno buio e maleodorante di qualche baracca, lo scorcio di un misero mercatino del paese vicino, nella piazzetta, in mezzo a case semi sventrate dalle bombe, la polvere alzata dai camion fra la sterpaglia bruciata dall’afa, in un non luogo e in un non tempo, dove si annullano per smarrimento del senso tutte le coordinate storico/geografiche.

 

Il discorso sulla guerra qui si rannicchia in una prospettiva ancora più chiusa, l’interno del carro armato dove Denis fa entrare la nonna appena arrivata, quasi un giro turistico.

Cosa poteva dire il regista di Lebanon (Samuel Maoz, 2009),più di quanto non abbia già fatto Sokurov?

In quanti si sta qui dentro?” “Dieci”, “Stretti” sussurra Alexandra.

Prova il fucile che il nipote ha con sè: “Facile”, commenta.

 

Alexandra si aggira col suo corpo appesantito su gambe dolenti, imponendo a tutti, con ruvida semplicità, il ritorno alla normalità dei gesti, dei rapporti, del linguaggio, là dove logiche deviate e aberranti l’hanno stravolta, e dà il segno della sua alta moralità, quando dice al ragazzo ceceno che la riaccompagna al campo dal mercato:

“Una vecchia giapponese una volta mi ha detto qual è la cosa che bisogna chiedere a Dio. Chiedi la forza della ragione, mi ha detto, la forza non è nelle armi o nelle mani degli uomini”.

Sokurov indugia su questo ragazzo silenzioso, chiuso, che si avvicina alla transenna dove i giovani russi scherzano e li guarda, poi gira le spalle e va via.

Forse un giorno si ammazzeranno, ma qui potevano scherzare e ridere tutti insieme.

C’è un mondo di donne che circonda Alexandra, le incontra al mercato e Malika (Raisa Gichaeva ), una nonna come lei, l’accoglie in casa per un attimo, le offre una bevanda che sa di paglia e parla bene il suo russo:

Gli uomini possono essere nemici, noi donne ci sentiamo subito sorelle” dice.

Poche parole e le due vite sono raccontate, la loro indistruttibile pietà torna a farsi sentire:

Quando guardiamo i soldati russi sembrano piccoli, come ragazzini. L’odore è quello degli uomini, ma sembrano dei bambini”.

 

Il mattino della partenza l’accompagneranno tutte al treno, e il loro abbraccio con la promessa di rivedersi riesce ad illudere che possa esserci un futuro, chissà.

Il film sfuma su questa scena, e mentre altre immagini sfollano dalla memoria, resta la dolcezza raccolta delle mani di Denis che fanno la treccia ai lunghi capelli della nonna, la sera, nella baracca, “come una volta”.

 

 

breve storia della guerra in Cecenia, per non dimenticare

La prima guerra del Caucaso, uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi dell’impero sovietico, viene combattuta tra il 1817 e il 1864. La Cecenia viene annessa alla Russia nel 1859 per poi entrare, nel secolo successivo, nell’Unione Sovietica. Nel 1920 è parte della Repubblica autonoma “delle Montagne” e a partire dal 1936 va a formare la Repubblica di Cecenia e Inguscezia. Nel 1944 Stalin autorizza la deportazione nel Kazakhstan e nell’Asia centrale di 500.000 tra ceceni e ingusci, accusati

di aver collaborato con il nemico durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo il crollo dell’URSS, nell’ottobre del 1991 viene eletto presidente della Cecenia Djokhar Doudaev, che dichiara l’indipendenza dalla Russia. La guerra cecena ha inizio il primo dicembre del 1994,con le truppe russe che invadono il territorio dei “ribelli”. Due anni dopo, alla morte

di Doudaev, il conflitto si interrompe, con gli accordi di Khasavyurt. Ma la pace dura fino all’agosto ’99, anno in cui riprendono le offensive militari. Secondo le statistiche ufficiali, la prima guerra di Cecenia ha fatto 50.000 vittime tra i civili e circa 6.000 tra i soldati russi. Tra i 15.000 e i 25.000 civili uccisi e centinaia di migliaia di rifugiati è il triste bilancio della seconda operazione bellica.

 

 

 

www.paoladigiuseppe.it

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