Regia di Béla Tarr vedi scheda film
Una lentezza tesa, e a suo modo avvincente, avvolge questo film che, tecnicamente, è la sintesi di tutti gli elementi tipici del cinema di Béla Tarr, a cominciare dai movimenti ritmici ed i suoni regolari che li accompagnano, come per scandire, in sottofondo, il trascorrere monotono ed indifferente del tempo. La regia è, ancora una volta, parzialmente votata all’invisibilità, con quelle inquadrature in cui l’obiettivo è fermo e puntato verso la parete, oppure riprende i personaggi di spalle e da lontano. Eppure, al di là della ripetitività dei motivi (come il barista, che, da vent’anni, è interpretato sempre dallo stesso attore, o la figura claudicante dell'ispettore Morrison, che ricorda quella di György Eszter ne Le armonie di Werckmeister), quest’opera esibisce una forte volontà di far sbocciare, anche dall’immagine nascosta o inerte, un’iconica vitalità, sviluppando una limpidezza così accentuata da trasformare il buio in una sorta di trasparenza nera. La visione, come sempre, è mediata dalla distanza, dalle ombre della notte, da un itinerario indagatore che scopre la scena poco a poco, tramite lunghi piani sequenza (notevole quello di apertura) caratterizzati da una fluidità morbida ed agile, e che accarezzano il soggetto o la situazione con un’allusione discreta, prima di palesarne i tratti. Questo approccio assomiglia a un sussurro che esprime sottovoce un timore, un dubbio, un avvertimento, prima che gli eventi manifestino la loro drammatica essenza. Il silenzio, prolungato ed innaturale, precede, come al solito, l’esplosione del dramma scatenato dall’incomprensione: le poche parole pronunciate in questo film, sono, ancora una volta, la premessa al litigio, alla lotta, alla fuga. L’omonimo romanzo giallo di Georges Simenon, da cui il film è tratto, aggiunge, al pessimismo di Béla Tarr, l’atmosfera nebbiosa del noir alla francese, con l’ambientazione portuale che reca con sé l’incerta identità delle zone di frontiera, compreso quel bilinguismo che forza gli accenti e storpia la pronuncia, suggellando un’endemica difficoltà di comunicazione.
The Man from London non è il migliore film di Béla Tarr, né il più significativo; tuttavia, è sostenuto da una buona dose di carattere, di coerenza, di determinazione, con cui sembra voler aspirare a diventare il più autorevole portatore di quella poetica che, da Perdizione in poi, fa della desolazione il focolaio di tutti i piccoli e grandi crimini della storia umana.
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