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Luz silenciosa

Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film

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La recensione su Luz silenciosa

di Peppe Comune
8 stelle

Johan (Cornelio Wall) è un uomo molto devoto a Dio e alla sua famiglia. Appartiene alla comunità religiosa dei Mennoniti, è sposato con Esther (Miriam Toews) ed è padre di sette figli. Ma gli capita di innamorarsi perdutamente di Marianne (Maria Pankratz), con la quale si vede furtivamente per liberare insieme la passione dei corpi. Johan dovrebbe prendere una scelta, ma il suo rigore religioso gli impedisce di farlo senza procurare sofferenza a chi vuole bene. Chiede consiglio all’amico Zacarias (Jacobo Classen) e al padre (Peter Wall), ma entrambi non sanno aiutarlo come lui vorrebbe. Rimane solo con la sua scelta, con l’amore per Marianne che ha tutti i crismi della vita che si vivifica, e quello per Esther che ha le forme della sua fede e del suo milieu culturale. Ma a logorarlo ancora di più è il fatto che la moglie sa tutto ma soffre in silenzio, dimostrandogli un amore che lo scopre nudo di fronte alla sua insondabile fragilità.

 

 

Luz silenciosa” di Carlos Reygadas si apre con l’incanto naturalistico di un bellissimo cielo stellato, che avvolge il film in un bagliore di luce crescente che arriva a farsi alba. La terra si sveglia, e con essa tutte le creature che ci vivono, inclusi tutti i patemi che il genere umano custodisce dentro la sua natura contraddittoria. L’azione si sposta all’interno di una casa, dove un padre, una madre e i loro sette figli sono a tavola in attesa di iniziare a mangiare. Pregano prima, con devota partecipazione emotiva, poi, chi ha da dire qualcosa lo fa con estrema compostezza. Il padre non dice niente, ma la sua autorità è riconosciuta senza alcuna obiezione, soprattutto dalla moglie, il cui volto solcato da una tristezza senza tempo sembra cadenzare il ritmo di vita della casa. I lenti movimenti di macchina indugiano soprattutto sugli scarti emotivi dei due genitori, sulle pause temporali che indirizzano le traiettorie dei loro pensieri muti. Fino a dare concreta consistenza alla gravità silente che aleggia intorno alla tavola. Agiscono di sottrazione come per consegnarsi spogli all’invariabile verità delle immagini fisse. Così sarà per tutto il film, la tecnica cinematografica, sin da subito, si preoccupa di palesare le coordinate stilistiche che caratterizzeranno la messinscena : si è in uno spazio simbolico che vuole farsi carico di importanti questioni speculative, attraverso il cinema e per amore verso il cinema. Carlos Reygadas lascia sempre emergere un carattere universale dai suoi film, totalmente slegati dal contesto spaziale in cui si trovano (vale anche per “Battaglia nel cielo”, unico suo film immerso nei rumori e nel traffico tentacolare di Città del Messico) e con l’evidente intenzione di veicolare lo sguardo molto oltre i limiti imposti dall’inquadratura. Ha una vocazione spiccatamente speculativa il suo cinema, con la propensione a voler includere le forme del creato nella sua poetica contemplativa. Guarda molto al cinema adulto proveniente dall’Europa l’autore messicano, al panteismo naturalista del cinema “filosofico” di Andrej Tarkowskij e di quello “pittorico” di Aleksandr Sokurov. O al rigore etico e religioso rinvenibile nel senso profondo delle piccole cose presente nel cinema di Theodor Dreyer (questo al di là delle chiare assonanze con “Ordet”). Paradigmi illustri che Reygadas dimostra di voler includere nella sua forma cinema ostentando una spavalderia registica affatto impertinente.

Il suo cinema sembra fuori dal tempo e dallo spazio perché è delle questioni di ogni tempo e luogo che intende occuparsi. Se in “Japon” era il rapporto arcaico che l’uomo conserva con la natura del mondo e il senso di morte, se in “Battaglia nel cielo”, invece, era il tema più “moderno” del conflitto di classe che produce distanze incolmabili, in “Luz silenciosa” si analizza il sentimento amoroso messo di fronte all’inestricabile difficoltà di una scelta morale : lasciarsi guidare dall’amore che vivifica un’esistenza o ascoltare il cuore che non vuole generare sofferenza ? Il dilemma di Johan, così come è inserito da Carlos Reygadas in un quadro narrativo che contempla le istanze problematiche dello spirito e le umane debolezze dei corpi, i bagliori della vita e i misteri della fede, solo occasionalmente ha degli attori che ne interpretano le premesse fondamentali e i possibili sviluppi. Perché è un dilemma eterno incentrato intorno al tema dell'amore inteso, o come proiezione fedele dei sentimenti più puri, o come il prodotto di comportamenti relazionali che non possono disconoscere il rapporto di responsabilità morale contratto col proprio background culturale. Un dilemma reso ancora più complesso per il fatto di trovarsi in un contesto culturale ben delineato nei suoi fondamenti morali, dove la fede religiosa è vissuta con una tale intensità da trasformarsi in una gabbia opprimente per i suoi fedeli, limitati pesantemente nella libertà d’azione e nella volontà di pensiero, costretti a convivere con l’idea di peccato che si  accompagna alla fede che professano, con i sensi di colpa che essa produce. Un dilemma inestricabile perché un amore che nasce non presuppone un amore che è morto, un amore che accresce le sue posizioni del cuore non è detto che ne incontri un altro disposto ad arretrare. Johan vorrebbe rinascere nell’esclusività di un amore rinnovato, ma il dolore silenzioso di Esther, segno di una devozione totalizzante per l’amato marito, lo strazia dal di dentro più dell’evidenza della sua colpa. È rispetto a quel Dio, del cui giudizio supremo lui ha timore, che la moglie gli sembra possedere una forza che merita di non essere delusa e di rimanere in eterno a dare vigore alla debolezza della sua fede. In questo contesto dialettico, la cosa straordinaria non è rappresentata dall’impunità di una scelta presa una volta e per sempre, ma nella “miracolosa” rinascita dell’innocenza. Non sfidare i comandamenti morali in cui si crede, ma piegarsi alla misteriosa potenza del creato. C’è una sequenza molto emblematica che esemplifica un po’ tutto il senso del film, sia perché racchiude in poche battute i sentimenti contrastanti che avvolgono l’amore ferito tra Johan e Marianne, sia per come mette in relazione il valore simbolico che si vuole dare alla luce e la tecnica cinematografica usata per farlo. I due amanti sono sul retro della casa, sono di fronte all’irrimediabile scomparsa di Esther. “Darei qualunque cosa per tornare indietro a come era prima”, dice Johan. “È l’unica cosa in questa vita che non possiamo fare”, risponde Esther. Poi si abbracciano, ma senza la consueta passione. La donna guarda il sole e protrae la mano in avanti come per ripararsi gli occhi dalla luce. La macchina da presa indugia sulla mano che ha oscurato il sole facendolo scomparire dall’orizzonte visivo. La lontananza del corpo celeste ha fatto in modo che bastasse un semplice gesto per riparare il volto da una luce fastidiosa. Un piccolo miracolo reso possibile dalla volontà umana a compiere una precisa azione. Quelli grandi li può fare il cinema, che gioca coi grandi misteri della fede fornendogli delle possibili soluzioni visive. Come succede nel finale, quando una lenta carrellata all’indietro allarga il campo che diluisce la sua luce accecante nell’approssimarsi dell’imbrunire (bella, a proposito, la fotografia di Alexis Zabe). Poi si perde nell’immensità di un cielo stellato. Le immagini catturano urla sgomente, non si sa se siano di un dolore che si rinnova o di un’incredula felicità. Fa lo stesso, perché dall’alto dei cieli, dalla luce silenziosa delle stelle, il mondo e i suoi misteri rimangono una materia insondabile.  

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