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Luz silenciosa

Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film

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Marcello del Campo

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La recensione su Luz silenciosa

di Marcello del Campo
8 stelle

Insomma un film un po’ “furbetto” che non riesce del tutto a nascondere l’artificiosità dell’impianto, ma capace comunque di inquietare e di sollecitare l’attenzione di chi avverte l’esistenza di qualità molto personali e specifiche che, una volta eliminati i “vizi” e le “velleità” tese a spiazzare e ottundere ancora troppo palesi, potrebbero precludere a risultati “intelligenti” e innovativi.

 

Cosi scriveva Valerio Vannini (spopola) – profeticamente - nel 2006. Poi di Carlos Reygadas non si parla più. Finita la nausea degli utenti di filmtv che intanto hanno seppellito Battaglia nel cielo del regista messicano come “un giochino intellettuale”, il regista gira due anni dopo Stellet Licht , vincitore di quarantanove premi (Bergen Festival, Gran Premio della giuria a Cannes ex equo con Persepolis, Chicago Int. Film, Havana Festival, Riga Intern. Film, Stockholm Film Fest.) Proiettato in oltre trenta paesi, Filippine comprese, tranne che in Italia. Qui la critica è scioccata dal film precedente, sciroccata pure, a leggere la schedula frettolosa dell’immarcescibile Mereghetti. Tant’è, il fido alleato dell’America aspetta, anfanando come un cane, tutto il blocco dei sequel, prequel dei titoli in voga nel paese ‘che ci ha liberato’, inchiodandoci alla sua cultura imperiale: oltre sessant’anni fa gallette, cioccolato e sigarette, oggi il cinema a perdere.

 

Stellet Licht è cinema, pittura e musica. “A surprising picture, and a very moving one as well”, ha detto Martin Scorsese.

Il film si apre con un piano sequenza – mdp carrello in avanti - di sei minuti squarciando lentamente la misteriosa nascita di un’alba qualsiasi che illumina un’abitazione tra alberi di alto fusto. Non ci sono suoni, solo il ‘naufragar m’è dolce’ tra latrati lontani, brusii, formicolante vita del silenzio, muggiti prossimi alla casa. Un inizio molecolare, di forte impatto cromatico, come se l’espressionismo musicale di Béla Bartok avesse trovato l’artista che lo rappresenti in figura. Difficile non pensare all’introibo di Satantango con i venticinque minuti di andirivieni lenti di vacche nel brullo paesaggio magiaro.

Il film si chiude con un piano sequenza – mdp all’indietro a sfumare – palindromo, dalla casa alla galassia apparente che avvolge gli uomini e le cose.

Tra l’inizio e la fine, la storia semplice di una famiglia mennonita: purezza dell’universo domestico, civiltà precristiana tra le parole.

Il diavolo è in agguato o almeno così pare al padre di Johan, uomo di provata fede e virtù maritali. Johan si è innamorato di un’altra donna, Marianne. Ha riferito tutto a sua moglie Esther, deve solo decidere quando andare via.

Lasciare la moglie e i cinque figli che hanno finora reso felice la vita domestica è impresa dolorosa, soprattutto per chi, come Johan ha tenuto una condotta morale integra, - il lavoro nella fattoria di sua proprietà, i riti quotidiani improntati a un rigore luterano.

Reygadas ci introduce in un ambiente di immacolata concezione della vita. Tra Johan ed Esther il dialogo è muto, il silenzio tra loro non allude al vuoto esistenziale che marca il cinema coniugale di Bergman, la caduta, la nevrosi sono assenti. Il dubbio di Johan non cozza contro l’incomprensione di Esther e la stessa Marianne ha parole di pietà per la rivale (uso una parola di comodo che mal si addice alla contemplazione di anime in pacifico conflitto).

Viene in mente il cinema di Ozu in cui, sotto la serena superficie colloquiale si agitano le acque quietate di un dolore tanto indicibile da trasformarsi in muta corrispondenza di snervati sensi.

Sul dramma senza parole si palesano con prepotenza le voci acusmatiche che nel cinema come lo conosciamo fin dalle origini erano rumori di fondo. Se la notte silente ordisce nei bisbigli della musica delle sfere la luce incipiente dell’alba, il giorno ricopre di clamori, canzoni alla radio, suoni di attrezzi al lavoro, i dialoghi e le parole tra gli uomini che, senza che ce ne accorgiamo, sono le autentiche voci del nostro vivere quotidiano. La musica nasce dal silenzio, dicono i testimoni di Pitagora di Samo cui John Cage si ispirò ampiamente. Come non riconoscere negli sguardi tra Johan ed Esther il silenzio di cuori in tumulto?

Lo sguardo di Reygadas si posa sugli oggetti, fa l’inventario delle cose che uniscono (un pendolo segna angosciosamente le ore con un clangore insopportabile in tempo reale), quelle che separano (la vecchia credenza, le foto ingiallite); l’occhio fruga i luoghi, le stanze, il lago e i bambini che sguazzano consapevolmente neutrali, detergendosi l’un l’altro la schiuma come per mondarsi di un peccato che non gli appartiene. La cura degli oggetti, la preghiera a tavola, i preparativi per andare a scuola, nulla può impedire che ogni cosa vada per il verso normale, la tragedia riguarda i corpi non le cose.

Reygadas ha citato tra i suoi ispiratori “Ejzenstejn e il suo utilizzo della musica, Ozu per il particolare che diviene universale, Dreyer (soprattutto i suoi ultimi film) per il modo in cui usa la luce, alcuni film di Abel Ferrara, i film degli anni ‘50/’60 dello spagnolo Luis Berlanga, Antonioni, Kiarostami prima del digitale, i film del dopo guerra di Rossellini... ”.

Tutta la parte finale di Stellet Licht si ispira a Dreyer (Ordet).

Nel colloquio con il padre, Johan decide di lasciare Esther. La sceneggiatura dello stesso Reygadas è di grande impatto argomentativo – vale la pena riportarla.

– Quel che ti accade è opera del nemico, Johan.

– Parlami come un padre, non come un predicatore.

– Sono entrambe le cose, Johan.

– Credo che sia opera di Dio. Padre, se è opera del diavolo, compiango me stesso. Davvero! Ma adesso devo sapere chi è la donna che devo amare. Aiutami se puoi.

– Posso raccontarti quello che mi è capitato... e che non ho detto a nessuno. Dopo che eri nato ho provato per un'altra donna, un'attrazione mai conosciuta. Ero pronto a lasciare la mia famiglia. Ma prima di farlo, mi sono imposto di non vederla. Abbastanza presto, ho capito che l'emozione era solo dentro di me. Era il mio bisogno di provare qualcosa. Tu soffri perché credi che il dolore di perderla non passerebbe mai... Ma passa, figlio.

– È vero, Padre. Ma quando confronto le due donne non lo faccio con quel che provo ora per Esther. Penso a quel che provavo per lei quando l'ho incontrata... e capisco che comunque avrei preferito l'altra. Semplicemente con Esther ho commesso un errore, e ora vi devo rimediare.

– Esther è tua moglie. Ti ama come tua madre ama me, e io so quanto anche tu la ami. Ami l'altra donna. È inesplicabile ma lo comprendo. Non vorrei essere al posto tuo, caro Johan ma in un certo modo ti invidio anche. Non posso dirti cosa fare, ma so che se non agisci subito, perderai entrambe.

Stellet Licht ha diviso la critica, ma, a mio parere, è uno dei film più affascinanti dell’ultimo decennio. Opera di alta contemplazione, chiede allo spettatore di rinunciare ai comuni modi della visione per lasciarsi trasportare in un universo inedito in cui il paesaggio sovrasta uomini e cose. Lo sperimentalismo (l’inizio e la fine ricordano Wavelenght di Michael Snow)  è al servizio di un plot ‘pretestuoso’, una storia comune.

Lo scarto tra ricerca cromatico-fonica e narrazione apparentemente ‘banale’ ha fatto arricciare il naso a molti critici contenutistici, ma a ben vedere, c’è ben poco di ‘banale’ nella rappresentazione di una comunità sconosciuta (i messicani mennoniti che parlano nella lingua plautietsch), quando da questa possano emergere ‘paradigmi indiziari’ di modi e forme di vita. Le ‘microstorie’ (vedi i saggi di Carlo Ginzburg) hanno un valore strutturale, dal particulare emergono dati antropologici universali.

Si racconta che Boris Paternak una notte telefonò a Josip Vissarionovic Stalin e che questi chiese al poeta che cosa volesse. “Parlare con lei della vita e della morte”, rispose Pasternak. Stalin chiuse il telefono.

In un interminabile piano-sequenza, a dieci minuti dalla fine del film, Carlos Reygadas ci pone la stessa domanda.  

 

      

 

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