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Grindhouse. A prova di morte

Regia di Quentin Tarantino vedi scheda film

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La recensione su Grindhouse. A prova di morte

di lussemburgo
8 stelle

Parte di un doppio spettacolo (Grindhouse) assieme al film di Rodriguez, al suo interno diviso in due capitoli autoconclusivi, l’ultima opera di Tarantino gioca spudoratamente con le citazioni trasformandosi, per volontà stessa del suo autore, in un’apologia del feticcio. Sin dalle prime inquadrature, piedi nudi, corpi femminili in abiti succinti, icone cinematografiche replicate, poster di film dislocati ovunque fanno di Death Proof un film che incessantemente rimanda ad altre pellicole, ad altri mondi, ad un immaginario usurato come la pellicola stessa, piena di salti, slabbrata nel sonoro, segnata nella fotografia. Tarantino non crea un mondo autonomo ma del tutto dipendente da altri, un film “referenziale”, interconnesso con le sue opere precedenti (personaggi che tornano, situazioni che si ripetono), ma soprattutto costruisce un universo derivato, un cinema di seconda mano in cui tutto è rimando, citazione, strizzatina d’occhio. È cinema di seconda mano, già masticato e digerito, quindi perfettamente malleabile per essere reintrodotto in una narrazione, nuova e spuria al contempo, pesantemente contaminata da apporti esterni ma sufficientemente forte da sorreggersi sulle proprie gambe autorali. Tutto è doppio e duplice nel film, non solo strutturalmente. I corpi sono rimandi, i film sono poster datati, le trame pretesti, i nomi stessi un’eco (Sydney Poitier, Jordan Ladd), i corpi controfigure (le vere stunt di Kill Bill), i generi frullati (Blaxpoitation, Sexploitation, horror seriali...), le musiche riciclate. Sembra di assistere all’incubo personalizzato di un cinefilo maniacale (il film ha effettivamente un andamento onirico e ovattato) che ha macinato migliaia di vhs rovinate nel retro del suo noleggio video, divertendosi poi a riscrivere la sommatoria integrale e coordinata dei propri feticci in una commistione di passato usurato (gli Anni Settanta) e scanzonato presente.
Parlando in termini televisivi, A prova di morte è uno spin-off, un film derivato, una variazione sul tema. E con il mondo della serialità Death Proof ha molti punti di raccordo. Quasi tutto il cast proviene dalla televisione (o dall’horror), per imprestito diretto (Cold Case, C.S.I: N.Y., Streghe), per sole comparsate (Grey‘s Anatomy, Crossing Jordan), addirittura per parentela (la figlia della Charlie’s Angel Cheryl Ladd). Il film stesso è diviso in due episodi autonomi, secondo i dettami della serialità classica, con la ripetizione di una schema, la riproposta della stessa situazione e di un personaggio ricorrente. Anzi, i due capitoli sembrano il pilota e l’epilogo delle scorribande seriali di Stuntman Mike, l’inizio e la fine delle sue avventure, raccontate con la serietà di Hazzard.
Ma anche gli attori prettamente cinematografici, come Kurt Russel, rifanno un personaggio già visto al cinema, una versione incarognita di Jena Plissken protagonista di due film di Carpenter; Stuntman Mike cita come momenti fulgidi della propria carriera varie serie tv degli Anni Settanta (periodo a cui risale l’esordio attoriale di Russel, sul piccolo schermo in quelle stesse serie). Del resto, Tarantino ha sempre affermato di apprezzare, a giusto titolo, la serialità televisiva americana, prestandosi a dirigere una doppia puntata di C.S.I. (finale della stagione 5) e una di E.R. (stagione 1). In entrambi i casi, la zampata autorale era presente, ma ben circoscritta ai parametri della regia televisiva, tanto da sottolineare solo alcuni tratti e lasciando invece scorrere inalterato il flusso narrativo e stilistico pregresso.
Tarantino sembra sottoporsi al medesimo imperativo in questo ultimo film, lavorare secondo un palinsesto consolidato, ricalcato perfettamente dai codici preesistenti del film di genere, arricchendolo di rimandi personali, infarcendolo di private joke alla propria carriera e al proprio cinema di riferimento ma senza snaturarne il concetto d base con eccessive ornamenti. Se il suo cinema precedente, dopo l’esordio tendenzialmente noir, poteva inscriversi nella categoria del post-moderno per come le citazioni diventavano il materiale stesso da cui si dipartiva la narrazione, adesso Tarantino sembra aver spinto l’acceleratore, portato i motori al massimo e voler rischiare a tutti i costi il collasso o la collisione. La narrazione si è fatta da parte parcellizzandosi in scene autonome, sorrette da un collante generico e pretestuoso. L’idea di partenza prevale sull’idea di cinema, la citazione sull’invenzione, la descrizione sulla narrazione, pur rimanendo entro i criteri e i canoni di una regia calibrata, pur nell’eccesso, e intensa, nella frammentazione, divertita e perfettamente consapevole, che infine distingue ogni lavoro di Tarantino da quelli, pur omologhi, dell’amico Rodriguez, il quale quasi mai riesce a trascendere la devozione cinematografica e il gusto goliardico in autonomia e originalità registica.
Il meta-cinema di Tarantino è puro divertimento, infantile e sottilmente perverso, compiaciuto e sentito al contempo, una ribellione quasi necessaria al piattume pirotecnico circostante, in cui i grossi budget sono inversamente proporzionali al coraggio, in cui la narrazione si appiattisce per non scontentare nessuno e appagare l’adolescente di turno con roboante fumo negli occhi.
C’è una presa di posizione viscerale di sentita protesta nel cinema di Tarantino, che si adatta ad un’apparente mercificazione del tessuto cinematografico secondo stilemi seriali e di genere per rivendicare un’autonomia ossessivamente e orgogliosamente personale, risputando in faccia al cinema che lo circonda un modus operanti seriale, per cercare di sensibilizzare i colleghi attraverso quella che ormai è, per sinteticità, capacità narrativa, profondità psicologica, consapevolezza politica e capacità innovativa e sperimentale, la più moderna ed evoluta forma di intrattenimento audiovisivo americano: la serialità televisiva.
E allora forse non è casuale se Stuntman Mike, personaggio cinematografico, è un serial killer psicopatico, un assassino senza senno, infime ucciso dalla sua stessa presunzione e le cui vittime designate siano più o meno collegabili allo schermo televisivo. La statica applicazione degli stessi principi, la volontà di procedere imperterrito su schemi noti non può che portarlo al fallimento, quando il moto d’orgoglio della vittima designata si allea ad un’abilità inedita che gli farà subire, per ironia della sorte e del regista, la stessa fine che aveva in serbo per le donne. La tv avrà (e già ha) il sopravvento, niente è realmente “a prova di morte”. E in fondo questo fa parte del divertimento.

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