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Non è un paese per vecchi

Regia di Ethan Coen, Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Non è un paese per vecchi

di LorCio
6 stelle

Non so, ma ho come la vaga impressione che con Non è un paese per vecchi sia il film sbagliato dei Coen. Intendiamoci, è tecnicamente infallibile ma teoricamente incompiuto. Non mi ha convinto e cerco di capirne i motivi, dato che commentatori più bravi e competenti di me ne hanno tessuto l’elogio sperticato. Si è detto molto del film da Oscar dei Coen, ma penso che, innanzitutto, il difetto stia nel manico: d’accordo nell’attestare l’anti-didascalismo di una sceneggiatura elegantemente adeguata, ma non si può negare la freddezza nobile che in realtà stona. Sì, è un film gelido, ma ghiaccia attraverso l’immagine o la storia, e non come vorrebbe, cioè attraverso la parola e la scrittura. C’è certamente una componente fondamentale molto più che interessante: concerne la morte, il sangue, fors’anche il lutto. Lasciando perdere per un momento l’etichetta di genere che si vuole appioppare ad ogni film senza discussione (insomma, è un noir accecante? un thriller anomalo? un western moderno? un dramma umano?), sarebbe curioso approfondire l’aspetto funesto del film (purtroppo mi manca la lettura del romanzo di McCarthy). Scorre il sangue denso sotto il sole abbagliante di un Texas desolatamente decaduto, legato al suo passato da un cordone ombelicale che si ribella al taglio chirurgico, dominato dalla violenza inesorabile di chi ha immolato la propria vita alla violenza gratuita, folle, incomprensibile.

 

Il personaggio di Javier Bardem incarna proprio questa malata esigenza di morte: uccide né per gusto né per commissione (o almeno non lo sappiamo), uccide per routine, forse, per non far crollare un’economia emozionale interiorizzata. Non sono del tutto d’accordo nell’asserire l’assenza di cinico humor all’interno del film: ce n’è, sommerso e sottile, lo stesso Bardem è un personaggio molto coeniano di ridicola crudeltà, con quel micidiale marchingegno per uccidere e la capigliatura post-beat e pre-emo. Il cinismo in realtà latita in favore dell’autocontrollo razionale e tutto sembra talmente studiato a tavolino che perfino l’epilogo ambiguo e beffardo appare come un’operazione più banalotta e semplicistica che altro (ma qui il problema sta alla fonte). Il film, tutto sommato, c’è, perché qua e là raggiunge livelli notevoli (specie nella seconda parte, più fluida della prima): peccato per l’incostanza della messinscena, per la non rada mancanza del rapporto causa-effetto tra esigenze autoriali e risultato finale, per la confusione inutile di alcuni passaggi. Su tutti, però, regna l’immoto volto del pietroso e sublime Tommy Lee Jones, vera quint’essenza (più di Bardem, a tratti fin troppo ovvio nella genialità della sua schizofrenia) di un film che cerca di spingere la notte più in là, oltre il caos della violenza.

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