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Breakfast on Pluto

Regia di Neil Jordan vedi scheda film

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La recensione su Breakfast on Pluto

di spopola
8 stelle

Divisa in capitoli (introdotti da varie canzoni pop) è una commedia bizzarra che passa dal rock alla favola, dalla violenza alla tenerezza ma senza mai dimenticarsi della questione irlandese, che ha momenti di autentica poesia e un irridente, salutare sense of humor assolutamente da recuperare.

Finalmente “Breakfast on Pluto” è riuscito ad approdare sui nostri schermi!!! Ha dovuto penare a lungo, rischiando davvero di “mancare” l’appuntamento con la sala, ma alla fine – e per fortuna – ce l’ha fatta!!! Questo appassionato “racconto di formazione” liberamente ispirato a un romanzo di Patrick Mccabbe (coautore anche della sceneggiatura) del quale mantiene la struttura narrativa in brevisssimi capitoli e certe “surreali” intuizioni della scrittura, riporta Neil Jordan dalle parti di “The crying game” e quindi su un terreno a lui particolarmente congeniale. Sono soprattutto i temi di fondo a risultare analoghi (l’ambiguità dell’identità sessuale, il contesto storico che fa da cornice alla vicenda, il coraggio delle scelte e dell’accettazione, la critica all’integralismo religioso e sociale, i conflitti, le lacerazioni delle bombe e il tragico dramma del terrorismo) ma differente risulta il cammino e le modalità di rappresentazione, anche se rimane riconoscibilissimo (inconfondibile direi) il personalissimo stile sovraccarico e ridondante del regista. Rispetto a “The crying game” l’impatto drammatico è meno evidente (ma ugualmente “tragico”). Si è privilegiato infatti un approccio in apparenza più leggero, quasi da favola, bizzarro ed esuberante per raccontare la storia di questo novello e stupefatto personaggio che potremmo paragonare ad Alice nel paese delle meraviglie che è al tempo stesso anche un bellissimo atto d’amore per il cinema e per le sue molteplici forme, qui “riprodotte” in tutto lo splendore di colori sgargianti ed eccessivi che restituiscono magnificamente l’immaginario di “quel mondo e di quei tempi” filtrato attraverso lo sguardo curiosamente attonito, ma fortemente volitivo e determinato del protagonista. Una strada pericolosamente densa di insidie e di trabocchetti che Neil Jordan riesce ad evitare egregiamente: difficile mantenere l’equilibrio costante e assoluto fra leggerezza e tragedia, fiaba e melodramma che sono poi gli elementi che rappresentano l’ordito e la trama di questa pellicola. Non sempre l’amalgama è perfetto, ma la struttura è solidamente personale e affascinante che persino le piccole disomogeneità finiscono per diventare pregi, perché in fondo è il risultato complessivo ad essere determinante, il coinvolgimento emotivo che riesce a renderci partecipativi e attenti che qui è assicurato e costante, afferra e trascina lo spettatore, lo fa riflettere, divertire, appassionare e commuovere con una intensità crescente e progressiva che determina una palpitazione quasi “identificativa” con “l’eroe”, ingenuo e coraggioso allo stesso tempo, di questo “viaggio all’inferno e ritorno”. Il racconto vede al centro dell’attenzione il percorso formativo – la parabola esistenziale - del giovane Patrick Braden detto “Kitten”, figlio di genitori ignoti, abbandonato alla nascita sui gradini della chiesa di una sperduta comunità periferica (siamo negli anni ’50), cresciuto senza amore (e pochissimi ma solidi amici) da sempre alla disperata – e caparbia - ricerca della propria identità sessuale e della madre naturale che lo ha rinnegato (la indispensabile necessità di “conoscere” e riappropriarsi delle proprie radici) nell’Irlanda bigotta, fortemente reazionaria e intollerante (che sono i segni identificativi di ogni integralismo cattolico spinto alle estreme conseguenze). Da sempre consapevole della propria diversità, incompatibile con l’educazione soffocante e restrittiva della società e della chiesa, umiliato dalla mancata accettazione della famiglia nella quale è stato allevato, ma dotato di una accesa fantasia e di una “necessità” assoluta di realizzarsi a qualunque costo, scapperà presto di casa per tentare di rintracciare la madre naturale (non a caso identificata come l’immagine miticizzata di Mitzi Gaynor, indimenticata diva dei musical americani degli anni d’oro) “inghiottita” dalla frenetica caoticità della swinging Londra rutilante e pirotecnica, una città nella quale anche lui approderà finalmente dopo alterne vicissitudini, che saprà mostrargli l’esistenza dei pericoli degli “orchi” e le “ferite” dolorose derivanti dal dilagante terrore progressivo per gli attentati dell’Ira” dei primi anni ’70 (una realtà più sfumata rispetto ad altre opere di questo autore ma analogamente pregnante e significativa). In realtà si tratta quindi della ricerca della propria effettiva essenza interiore al di là delle apparenze “formali” delle connotazioni anagrafiche da parte di Kitten (ma anche metaforicamente di un’intera nazione, e il parallelo è davvero fortemente evocativo). E’ a Londra che Kitten riuscirà davvero a realizzarsi e ad uscire dal bozzolo, alternando euforia e molte pericolose cadute, sofferenze e illusioni, e sarà proprio qui che deflagreranno, disintegrandosi con le bombe, le sue fantasie immaginarie, rubandole una parte dell’innocenza ma consentendole così di acquisire la piena anche se sofferente certezza della propria maturità, che le permetterà di ritrovare quell’equilibrio necessario a riportarla alle origini consapevoli della propria esistenza nella ricomposizione di una nuova “insolita” famiglia analogamente bistrattata e avversata con la violenza eccessiva di ogni estremismo ideologico (e in tempi oscuri di negazione dei più elementari diritti come quelli che potrebbero essere sanciti dai “Dico”, dovrebbero scaturire seri elementi di riflessione non settari e arroccati su posizioni oltranziste e intransigenti dalla visione di questo film proprio qui in Italia). Kitten è un personaggio davvero particolare e insolito - analogo a quello del(la) protagonista di “Transamerica”, e non solo per determinazione e coraggio - disegnato in maniera strepitosa dall’eccezionale contributo creativo di un sorprendente, clamoroso, magnifico Cillian Murphy che dona anima e corpo a una fisicità identificativa assolutamente credibile, rappresentandoci le molteplicità di una creatura fragile e vulnerabile, ma così piena di energia, da riuscire a soffocare solitudine e disperazione, attraversando quasi indenne molto ostracismo e altrettanta violenza. Una figura “femminile “ e forte, spesso “ferita” nel corpo ma capace di uscire integra, grazie al suo spirito indomito, dal fuoco delle maldicenze, dell’abuso e delle “privazioni”, novella araba fenicia insomma che risorge sempre dalle proprie ceneri, per rigenerarsi ogni volta più forte e combattiva, pronta a lanciarsi in una nuova avventura con la forza della speranza che alla fine la troverà vincente e in qualche modo appagata e riconciliata (anche se “indirettamente”, con l’esercizio di una maternità riflessa che le restituisce, insieme al ritrovamento del padre, il senso della vita). Una prova attoriale davvero superlativa la sua che merita il plauso incondizionato dell’ammirazione. Il film, nella varietà degli eventi e delle situazioni, è zeppo di camei significativamente determinanti (l’ottimo prete di Liam Neeson, l’attonito mago ciarlatano perfettamente reso nella sua ambigua capacità coercitiva da un insolito Rea, l’inquieto cliente omicida dell’eccellente Bryan Ferry, ecc. ecc.) che accrescono ulteriormente il valore del risultato. Dell’impasto colorato delle visioni si è già detto, come si è gia accennato alle molte doti di una messa in scena capace di mischiare con maestria sessualità e politica, lievità e dramma, favola e tragedia, un mondo insomma che in un certo senso riassume tutte le fantasie e le ossessioni del suo autore e che si esplicita in alcune sequenze ancora una volta più che memorabili, che rimangono indelebilmente impresse nella mente (fra tutte, la contro-confessione nel peep-show). Rimane da citare un altro fondamentale elemento di qualità: la colonna sonora, una serie interminabile di hits che passa dal brano dal quale è stato mutuato il titolo della pellicola a “L’amore è una cosa meravigliosa”, da “Chippy Chippy Cheep Cheep” a “Les girl” o a “Sugar Baby Love” (ma l’elenco sarebbe davvero lunghissimo). Una carrellata intensa e appassionata insomma che introduce e “commenta” ogni capitolo, e che da sola varrebbe il prezzo del biglietto, un elemento qualificante e indispensabile per aiutarci a rituffarsi (e chi meglio della musica e delle canzoni può farlo?) in quell’epoca ormai lontana restituendoci intatti i “sapori” perduti, ma senza alcuna retorica del “come eravamo” patinato e illusorio del ricordo nostalgico.

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