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Breach. L'infiltrato

Regia di Billy Ray vedi scheda film

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La recensione su Breach. L'infiltrato

di spopola
8 stelle

Billy Ray si conferma un ottimo regista con questa sua opera che parla dell’ambiguità dei rapporti, di finzioni e inganni, del mutare delle percezioni, della imponderabilità sfuggente dell’animo umano insondabile e sconcertante. Un gioco mutevole e speculare di “tradimenti paralleli” insomma, che si esplicita nella relazione tesa e intensamente coinvolgente, quasi manipolatrice, che si stabilisce fra i due protagonisti, in una “caccia al topo” (o meglio alla talpa) molto crudele che raggiunge momenti di elevata fibrillazione emotiva che mantiene lo spettatore col fiato sospeso per tutta la durata della pellicola, senza pause o cedimenti, nonostante che si sappia già fin dalla prima inquadratura, e non solo perché si tratta di un fatto realmente accaduto in tempi recentissimi, come davvero andrà finire la cosa. La storia è quella di Robert Hanssen, dei mesi che precedettero il suo arresto, colto in flagrante nel momento in cui depositava un sacco della spazzatura pieno di documenti segreti dell’Fbi (una attività di spionaggio parallelo che portava avanti da oltre 25 anni) e delle modalità con le quali il bureau riuscì ad incastrarlo, aprendo la necessaria breccia nella sua corazza che sembrava essere inattaccabile, con l’ausilio di un aspirante agente al quale fu assegnato l’incarico di sorvegliare da vicino il sospettato, facendogli da finto portaborse. Un film di spionaggio ben lontano dalla spettacolarizzazione delle mirabolanti avventure degli agenti speciali alla quale ci ha abituato il cinema e la letteratura del genere, ma non per questo meno trascinante e ansiogeno: il thriller è psicologico, una schermaglia fatta di sguardi e di “marginali” annotazioni che piano piano ci fanno comprendere quali potrebbero essere le “falle”, i pertugi attraverso i quali “l’infiltrato” potrà raggiungere l’obiettivo, in una atmosfera grigia e opprimente che disegna alla perfezione la routiniera esistenza quotidiana piena di veleni e di frustrazioni, squallida e disturbante di questi travet della delazione, il vuoto pneumatico delle loro anime, la mancanza assoluta di ideali, la disponibilità a barare sempre e comunque, la perversione della realtà oggettiva di ogni esistenza mascherata da un oltranzismo religioso conservatore e bacchettone, il valore del denaro e delle apparenze, la presunzione dell’ego e il maschilismo prevaricante. Anche gli ambienti sono desolati e sconfortanti: uffici angusti e senza finestre, corridoi tortuosi e oscuri come la nera anima del protagonista, un immenso, magnifico Chris Cooper capace di rendere tutte le sfumature sfaccettate di un personaggio bigotto e pornofilo allo stesso tempo, un cinico traditore avido di soldi privo di morale ma non per questo meno affascinante e privo di pericolosa attrattiva, un personaggio insomma che avvolge e fa paura. La sua interpretazione è davvero magistrale, e ci si trova persino a disagio di fronte a tale eccezionale bravura che, senza barare, ci costringe a volte “ad essere dalla sua parte” nonostante tutto, diabolicamente sedotti (ma al tempo stesso terrorizzati) dalla sua mefistofelica statura manipolatrice. Il personaggio affidato a Ryan Philippe è più conforme, anche se sfugge molto bene agli “agguati” della banalizzazione che ogni tanto gli vengono tesi: merito di una preparazione professionale molto strutturata, che gli consente di rendere comunque credibile un personaggio più ovvio e scontato, forse eccessivamente idealista nel coltivare un’ambizione che si rivelerà fallace e che rischierà persino di distruggere la sua famiglia. Può così raccontarci con piccolissime annotazioni marginali, le sue mutevoli condizioni psicologiche rispetto al suo antagonista, che passano dalla ammirazione iniziale allo sconvolgimento progressivo e sbigottito della scoperta delle varie “infrazioni”anche private (i filmati osceni delle azioni sessuali della moglie), fino alla paura terrorizzante che si avverte nel finale, nonostante l’impegno e la determinazione a completare comunque l’azione di chi non vuole essere perdente. Il periodo storico di riferimento (il febbraio del 2001) è reso alla perfezione con pochissime pennellate che raccontano anche le mutazioni “politiche” attraverso un semplice cambio delle foto dei Presidenti nelle stanze del potere. Ne emerge ancora una volta, un ritratto dell’America davvero poco tenero e conciliante, capace di farci riflettere seriamente sulle profonde contraddizioni interne di quel sistema e sulle troppe “omissioni” presupponenti , sulle “falle” insomma pre e post 11 settembre, che l’hanno resa così vulnerabile e vendicativa.

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