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Il poliziotto è marcio

Regia di Fernando Di Leo vedi scheda film

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La recensione su Il poliziotto è marcio

di alan smithee
7 stelle

C'è del marcio ai vertici della polizia e lo stimato, affascinante ed azzimato commissario Domenico Malacarne (l'attore e modello francese Luc Merenda), dinanzi all'opinione pubblica un fido rappresentante della legge e nemico numero uno della criminalità organizzata, altro non si rivela se non un ennesimo portavoce di una corruzione ormai dilagante, garante del mercato nero di sigarette ed armi in cambio di lauti compensi.

E dire che si tratta del figlio di un onesto maresciallo dell'arma dei Carabinieri prossimo al congedo (Salvo Randone), e che per causa del figlio sarà destinato ad una fine drammatica, come atto di sgarro quando il poliziotto si pone in modo duro contro i trafficanti che lo ostacolano con nuovi ricatti.

Per una volta Fernando De Leo, regista di solido mestiere noto per la sua mirabile trilogia sul malaffare (La mala ordina, Milano calibro 9 e Il boss, girati a raffica tra il '72 ed il '73)  sempre molto avvezzo a raccontare i dettagli del malaffare italico nel Paese del grande imbroglio morale ed economico, si introduce senza mezzi termini nel cuore marcio della corruzione presso le istituzioni, girando un film schietto e brutale, anche grezzo e grossolano nei suoi stacchi improvvisi come vittime di tagli d'accetta, come testimonia sin dal suo incipit immediato e senza preamboli, che punta subito al nocciolo del problema senza porsi nessun scrupolo quanto a sondare i termini delle relazioni criminali che intercorrono tra i garanti della giustizia e la malavita che essi dovrebbero combattere.

Di Leo inserisce anche personaggi sacrificali popolari e sopra le righe come il macchiettistico Serafino (lo interpreta con la verve che ben conosciamo Vittorio Caprioli), testimone incallito e testardo che con la sua greve cocciutaggine finisce per portare alla luce tutte le connivenze più marce tra il mondo della malavita, e i garanti della legalità.

Un film che, fin dalla storia nei suoi tratti generali, appare scomodo, irritante, antipatico come il protagonista, bello e dannato in quei suoi abiti eleganti inappuntabili vestiti con grande disinvoltura e fiero portamento e che, al pari di altri progetti ambiziosi e fuori dagli schemi partoriti dalla fertile vena narrativa di Di Leo, fu destinato a subire una sorta di censura non ufficiale, ma nei risultati, isolato e mal distribuito come fu al momento dell'uscita in sala.

Il film infatti pone al centro della storia un personaggio altamente negativo, senza appello, e non il classico eroe problematico e pieno di complessi, costretto a prendersi colpe in realtà non sue ma attribuibili a terze responsabilità.

Qui invece la legalità affonda, degenera, annega in una pozza schiacciata dal piede prevaricatore di una malavita che trova il modo di insinuarsi nelle istituzioni, corrompendole e promettendo loro contropartite difficili da rifiutare anche se si è figli educati con sani principi di fedeli sottufficiali dell'arma più antica e celebrata tra le forze dell'ordine.

Come di consueto, il racconto di Di Leo alterna personaggi monolitici e privi di sfumature, ad altri legati alla tradizione popolare che di sfumature ne mostrano sin troppe, dando luogo ad un avvicendarsi di personaggi talvolta inquadrati e precostituiti come formine, ad altri straripanti e colorati fino a sfiorare la farsa.

Il tutto all'interno di un poliziottesco di tutto rispetto, violento e teso, diretto e senza cornici edulcorate o inutili ricorsi a scorci o panoramiche, intento piuttosto a concentrarsi su grandi scene di inseguimenti in macchina, scazzottate e sanguinolente sparatorie.  

 
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