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Un affare privato

Regia di Guillaume Nicloux vedi scheda film

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La recensione su Un affare privato

di joseba
8 stelle

Investigatore privato di un’agenzia parigina, François Manéri è incaricato dalla sua direttrice di occuparsi del caso Rachel Siprien, una ragazza ventiduenne scomparsa sei mesi prima senza lasciare traccia. Pur nutrendo forti dubbi sull’utilità di un’indagine fuori tempo massimo, François accetta a una condizione: se nel giro di una settimana non avrà trovato niente, interromperà le ricerche. Ma tre giorni bastano e avanzano per coinvolgerlo personalmente nell’affaire.

Polar impreziosito dalla partitura sonora di Éric Demarsan (autore delle musiche de L’Armée des Ombres e de Le Cercle Rouge di Jean-Pierre Melville), Une Affaire privée è il quarto lungometraggio cinematografico di Guillaume Nicloux. Già quattro anni prima, nel 1998, Nicloux si era cimentato con un investigatore sui generis, portando sul grande schermo Le Poulpe (così soprannominato a causa delle lunghe braccia), protagonista di una fortunatissima serie di romanzi firmati da alcuni tra i maggiori esponenti del noir letterario francese degli anni Novanta (Jean-Bernard Pouy, Patrick Raynal, Serge Quadruppani e lo stesso Nicloux col titolo Le Saint des seins del 1996). Primo capitolo della trilogie policière (proseguita nel 2003 con Cette femme-là e conclusa nel 2007 con La Clef), Une Affaire privée riprende la figura tipica del detective sfrondandola però delle componenti marcatamente grottesche di Le Poulpe e accentuandone i tratti squisitamente noir.

È fuor di dubbio che il Philip Marlowe del Lungo addio (Robert Altman, 1973) e il John Klute di Una squillo per l’ispettore Klute (Alan J. Pakula, 1971) siano i padri cinematografici del François Manéri di Une Affaire privée, eppure la disincantata strafottenza di Elliott Gould e la sorniona tenacia di Donald Sutherland non bastano a rendere conto dell’eccezionalità del personaggio cucito addosso a Thierry Lhermitte da Guillaume Nicloux. Un personaggio che, a quasi venti anni dal primo Les Ripoux (Claude Zidi, 1984) nel quale Lhermitte interpretava un poliziotto novellino svezzato da un collega di gran lunga più anziano e scafato, sembra aver imparato fin troppo bene la lezione, recando impressi sulla pelle i segni indelebili della disillusione cronica. Sigaretta perennemente in bocca e allergia acuta ai legami sentimentali, il private eye cesellato da Nicloux/Lhermitte surclassa in amarezza e cinismo i modelli neohollywoodiani, trasportando il loro spaesamento in puro territorio esistenziale.

Persino l’oggetto della ricerca si sdoppia in contorni enigmatici che si sovrappongono contraddittoriamente in un’immagine che non corrisponde (più) alla realtà. È la mancanza, allora, ad imporsi come motore del racconto e tema profondo del film: mancanza della figlia Rachel per la madre (una Aurore Clément ostinatamente in parte) che non riesce a dare volume al suo dolore, mancanza di prove tangibili che chiariscano la scomparsa della ragazza e giustifichino le indagini della polizia e, soprattutto, mancanza di un motivo dichiarato che induca Manéri a rimanere sul caso malgrado i ripetuti scacchi. La ricerca si svincola dalle ragioni esplicite per entrare in risonanza con la condizione intima del detective: Une Affaire privée. Il trentaseienne Nicloux gira con stile avvolgente e incalzante (rarissime le inquadrature fisse), muovendo la macchina da presa in vorticose carrellate circolari o in lenti avvicinamenti a stringere sui personaggi, delegando ad una fluida steadycam il compito di tallonare le perlustrazioni di François. Derive visive per una ricerca che, come in ogni noir degno di questo nome, è sinonimo di smarrimento.

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