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L'ultimo inquisitore

Regia di Milos Forman vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo inquisitore

di spopola
4 stelle

Formalmente opulento nella forma, sembra che il regista fosse interessato solo a reinterpretare per lo schermo la pittura di Goya. Il vero guaio però è che il film avrebbe avuto bisogno di un clima incandescente e invece ha un andamento alquanto pasticciato che lascia inevitabilmente freddo lo spettatore nonostante la drammaticità della storia.

Sulla carta “L’ultimo inquisitore” (o meglio “Goya’s Ghosts”, titolo originale certamente più aderente e azzeccato di quello proposto in Italia) rappresentava una ipotesi affascinante e ambiziosa. Erano infatti molteplici gli elementi che giocavano a suo favore (oltre al nome del regista, già da solo una garanzia, quello del co-scenggiatore Carrière abituale collaboratore di Buñuel, che con siffatta tematica avrebbe dovuto andare a nozze! e un cast molto promettente. Per altro Forman dopo un periodo non proprio esaltante, era ritornato grande con l’ultima sua ormai lontana “creatura” apparsa sullo schermo, quel “Man on the moon” del 1999, poetica e geniale biografia di Andy Kaufman, comico anarcoide e fuori dagli schemi e niente poteva quindi lasciar supporre il “mancato raggiungimento del bersaglio”. Il progetto, finalmente concretizzatosi sotto i migliori auspici, riguardava infatti un “sogno” lungamente vagheggiato ed inseguito che sembrava poter aderire come un guanto alle modalità espressive del regista (un melodramma a forti tinte che descrive il passato per “graffiare” il presente). Purtroppo però, come a volte accade di fronte a questi “movimenti dell’anima” fortemente partecipati, le utopie troppo a lungo coltivate, quando alla fine arrivano a realizzarsi, hanno inspiegabilmente perso gran parte del loro vigore e risultano più annacquate e scolorite del necessario, davvero molto meno significative e pregnanti del “desiderio” e delle intenzioni originarie. E questa – dispiace dirlo – è proprio l’impressione che si riporta dalla visione dell’opera adesso sui nostri schermi, i cui esiti complessivi, nonostante l’indubbio impegno, appaiono decisamente deludenti, assolutamente non all’altezza della “polemica” scottante religiosa e non che immagino stesse particolarmente a cuore all’autore e che pure a tratti emerge. Non che manchino alcuni momenti cinematograficamente efficaci infatti, ma è l’insieme a non coagulare nella maniera dovuta e a rendere insoddisfacente la visione. Formalmente opulento nella struttura anche cromatica, all’inseguimento costante della reinterpretazione in immagini di quadri e disegni del sommo pittore (forse un tantino accademico a volte), il film ha un andamento alquanto pasticciato che lascia incomprensibilmente freddi e distanti (potremmo persino dire annoiati) ben lontani da quello che avrebbe dovuto essere il clima “incandescente” richiesto dalla storia e dalla sua alta drammaticità per raggiungere davvero la dimensione universale di una “denuncia” proiettata nell’attualità. Qui rimane invece sovente la belluinità grandguignolesca di molte situazioni che relegano gli eventi in una “zona d’ombra” molto vicina al romanzone d’appendice, sia pur finemente “illustrato”. Colpa anche di una sceneggiatura (dispiace ammetterlo) che non “scava” quanto sarebbe stato necessario nelle psicologie dei personaggi, superficialmente riprodotte con modalità molto manierate (quasi scontate) e sintetizza la cornice storica degli eventi (la posizione medievale oscurantista e “talebana” della inquisizione spagnola che è all’origine della tragedia, la ventata pseudo rivoluzionaria e riformista delle campagne napoleoniche e la “controriforma” Wellingtoniana che la portano a compimento) con un andamento troppo “concentrato”, quasi da “Bignami” e per questo sbrigativamente incapace di far percepire davvero l’essenza del periodo e le sue spaventose contraddizioni. Sembra insomma che l’attenzione principale sia stata rivolta alla “forma” indubbiamente accurata dimenticando di “verificare” la temperatura del versante contenutistico e senza accorgersi quindi che la sostanza ne risultava fortemente indebolita. Io credo che sarebbe stata necessaria una “visionarietà” reinterpretativa più personale e carnalmente più corrosiva che invece di rispettare la “patina” esteriore della pittura di Goya, fosse capace di rappresentarne l’inquietante entroterra metafisico attraverso la effettiva materializzazione di qualcosa di percettibilmente molto vicino a quei fantasmi evocati dal titolo originale, una rivisitazione quasi onirica insomma, ma al tempo stesso meno platealmente esibita nel suo splendore visivo, più corruttibile e “contaminata”. Concludendo, una pellicola con molti “vizi” (sarebbe meglio dire “vezzi”, che diventano a volte presupponenza) e insufficienti “virtù”, che alcune sequenze di palese qualità “espositiva” che ricordano la grandiosità sfarzosa de Forman degli anni migliori (ma non consentono di riconoscerne integralmente le idee e i coinvolgimenti emotivi) non riescono a salvare completamente dal “naufragio”. Forse a causa dei profili dei personaggi un poco tagliati con l’accetta (convenzionali e scontati nella definizione e negli sviluppi) non risulta particolarmente apprezzabile nemmeno l’interpretazione, a partire da Javier Barden che non può fare molto di più che riproporre in maniera pedissequa il solito “cattivo di maniera” (poco aiutato anche dal doppiaggio direi) per arrivare a Natalie Portman (un altro ruolo di “vittima sacrificale” dopo “V per vendetta!!!”) paladina innamorata del doppio ruolo affidatole (apprezzabile quanto meno l’impegno e la dedizione), e disponibile per questo a “denudarsi” senza falsi pudori e a lasciarsi imbruttire e deturpare oltre misura (ma l’immacolata e intatta dentatura dopo i 15 anni di detenzione potevano risparmiarcela, vista l’accuratezza messa nel “disegnare” le atrocità delle altre “ferite” inferte al suo fisico e alla sua mente). Stellan Skarsgard quale Goya, è un “attonito” testimone degli eventi che a mio avviso meritava “maggiore” introspezione e che qui invece rimane troppo in superficie (la “sordità” sfruttata come metafora del “disimpegno” morale è abbastanza prevedibile e anche sconcertante per come viene adoperata). Meglio caratterizzati i personaggi di contorno, le spagnole Bianca Portillo e Mabel Riveira e soprattutto Randy Quaid nel ruolo del re di Spagna, al quale si deve uno dei momenti più felicemente riusciti, quello dell’assolo di violino dopo la presentazione del quadro che ritrae la regina a cavallo, turbato dall’annuncio dell’arrivo delle truppe Napoleoniche che ben si contrappone con la sua caustica dose di ironia, al denso finale che è un altro dei pochi colpi d’ala di tutto il contesto.

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