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L'ultimo inquisitore

Regia di Milos Forman vedi scheda film

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La recensione su L'ultimo inquisitore

di giancarlo visitilli
4 stelle

Il potere della corda, nel mondo ce l’hanno i cowboy, alcuni inquisitori moderni, quelli dei paesi che fanno difficoltà ed entrare a far parte della grande famiglia dell’Europa. Non molti decenni fa, anche la Chiesa aveva questo potere, e in virtù di tale potere ne ha appese di persone.
Questo, in sintesi, è parte di ciò che un pluripremiato all’Oscar, Milos Forman (Amadeus, Qualcuno volò sul nido del cuculo), ha voluto raccontare nel suo nuovo film, che pur avendo le premesse per un’opera in grande stile e con un cast stellare, a noi è sembrato una sorta di “Quer pasticciaccio brutto”, volendo scomodare il titolo di un romanzo che all’occasione si presenta opportuno.
Forman ha voluto “pasticciare” nell’ambiente inquisitorio della Spagna di fine '700, stretta nella morsa di sangue fra monarchia e rivoluzione. Solo che, come se il brodo (della storia) non fosse già di per sé stesso lungo, ha inserito anche le vicende del celebre pittore Francisco Goya, che fra l’altro dà il titolo all’edizione originale della pellicola, Goya's Ghosts, celebre pittore, dapprima fervente membro del Santo Uffizio e poi grande rivoluzionario. In mezzo a tutto ciò regna non solo la frammentazione narrativa, ma sembra che “in mezzo scorra il fiume”, non solo da un punto di vista dell’immagine, ma della narrazione in sé, tanto che, alla fine (in realtà già dopo i primi venti minuti di girato), l’operazione risulta fastidiosa e ridondante.
Infatti, se i titoli di testa, costruiti su alcune stampe originali di Goya, sembrano convincere, in realtà ci si accorge che hanno la funzione di illudere, vista la deludente continuazione del poi, nonostante si tenti di raccontare di esseri umani trattati come bestie e impotenti finanche di fronte al divino.
Neanche l’interpretazione di un eccellente attore come Javier Bardem riesce a convincerci, per una recitazione eccessivamente sulle righe e quindi assolutamente irreale. Semmai, degna di nota è la fotografia, anche se la scelta del colore di fondo fumoso, bituminoso, molto simile a quello della pittura di Goya è ridondante.
Da un regista autore di capolavori come Amadeus, di cui in questo nuovo film si ricordano alcuni momenti, tipo quello della descrizione della ‘grassa’ monarchia spagnola, o nella carrellata nel manicomio, ci saremmo dovuti aspettare almeno una maggiore tessitura, specie per quanto concerne l’introspezione, insieme ad un racconto meno scontato e retorico, finanche retrò. La commistione tra il dramma e la commedia accentua la sensazione di insopportabile indigestione da “fritto misto”.
E se l’insegnamento emblematico del film, ci rimanda alla frase: “La tortura con la corda è quello che ci vuole in questi tempi confusi”, evidentemente, tale supplizio spetta anche a coloro che, confusi, confondono la visione degli amanti del buon cinema.
Giancarlo Visitilli

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