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The Illusionist

Regia di Neil Burger vedi scheda film

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La recensione su The Illusionist

di spopola
6 stelle

Per me una mezza delusione che non va oltre la sufficienza e solo grazie alla presenza carismatica di un attore straordinario come Edward Norton (qui davvero “immenso”, un “mago” ambiguo e geniale che conferma come quando si è davvero “grandi”, non c’è poi bisogno di molti “sterili virtuosismi”.

Devo purtroppo dire che (almeno per quanto mi riguarda) le attese sono andate ampiamente deluse. Dovendo sintetizzare il giudizio su “The illusionist” infatti, potrei semplicemente dire che il film mi ha fortemente scontentato (o meglio, e più esattamente, che “non mi è piaciuto affatto”) nonostante che sulla carta il progetto sembrasse possedere ottime prerogative non solo per suscitare interesse, ma anche per coinvolgere e intrigare. Se gli do la sufficienza quindi, è solo in virtù della presenza carismatica di un attore straordinario come Edward Norton (qui davvero “immenso”, un “mago” ambiguo e geniale che conferma come quando si è davvero “grandi”, non c’è poi bisogno di molti “sterili virtuosismi”, lo si può dimostrare anche operando “in sottrazione”, come in effetti fa in questa circostanza: niente “strabuzzamenti” di occhi, “ghigni feroci” o esasperazioni istrioniche oltre il consentito come spesso ci capita di osservare in giro, ma una intensità fortemente trattenuta e interiorizzata che diventa magmatica e che in moltissime sequenze crea una suspense più inquieta e disturbante di ciò che “evoca” sulla scena con le sue “illusioni”). Un apporto “mattatoriale” così travolgente e creativo il suo, che se non è sufficiente da solo a “salvare” completamente l’esito dell’operazione, per lo meno è capace di non far rimpiangere il costo del biglietto, perché in un certo senso ci fa uscire insoddisfatti, ma comunque appagati dall’aver assistito all’esibizione di un talento così mostruoso da rasentare il sublime. Il confronto con “The prestige”, da più parti tirato in ballo per le analogie del soggetto, mi sembra però che non sia in alcun modo proponibile (comunque farebbe apparire ancor più disastrosamente in perdita il risultato di questa fatica adesso in distribuzione sui nostri schermi) perché al di là della tematica di fondo e di certe atmosfere che potrebbero sembrare omogenee (ma solo all’apparenza) niente altro accomuna le due pellicole: “The Prestige” (uno dei più stupefacenti risultati di fine anno) è un film molto più teorico e appropriato (ed è decisamente più “ambizioso” e riuscito) che parla “seriamente” di illusione e di magia, scava in profondità mostrando con perizia il “teorema” e la sua “dimostrazione” (spesso ciò che appare non è la realtà) e non teme di mostrare “il trucco” che inganna lo sguardo, ne fa anzi quasi un trattato filosofico (sul "tradimento" della percezione visiva) portato avanti di pari passo con l’analisi e la dissezione di pulsioni e sentimenti quali la competizione, l’attrazione, l’ambizione, la sete del successo e la prevaricazione, correndo il rischio di “scoprire” davvero in progressione tutte le carte durante il percorso, ma lasciando ugualmente un senso di profondo disagio (che è poi quello che avvolge lo spettatore) nell’ambiguità spiazzante e allucinata di quel finale aperto che fa ritornare disturbati e ansiosi proprio perché rimette tutto in discussione (anche il nostro pensiero) ed elimina ogni certezza acquisita, rendendo tutto più effimero e insicuro; “The illisionist” che “chiarisce tutto e male” ma non spiega niente, utilizza invece il discorso dell’illusione e della magia solo perché l’argomento (lo “strumento”) gli serve per far diventare possibile (e giustificare, almeno “teoricamente”) una soluzione “oggettivamente inattendibile” altrimenti improponibile. Il percorso è in effetti quello di un giallaccio (nemmeno di primissima scelta)intriso di un romanticismo decadente portato alle estreme consegueenze, con il classico ribaltamento finale che può lasciare di stucco, ma presenta tali e tante incongruenze che il regista (né la sceneggiatura) si sente in dovere di “svelare” (o semplicemente di dettagliare meglio e con più attendibilità e meno concitazione) per rendere davvero logico ed accettabile il percorso, così da lasciarci “increduli” e insoddisfatti (o peggio con la sensazione di essere stati a nostra volta presi in giro). Quello che più disturba però al di là della spudoratezza con la quale vengono rappresentati visivamente i “trucchi magici”, per altro senza prendersi minimamente la briga di fornirci qualche possibile traccia sulle procedure seguite per ottenere “certi risultati” quasi trascendentali(chiaramente realizzati grazie alla tecnologia moderna della quale il cinema dispone e usufruisce, ma immagino difficilmente ottenibili con questa “credibilità” negli anni di quell’ottocento manierato nei quali è ambientata la storia, pur trattandosi di un “racconto” di pura fantasia che non vuole avere precisi riferimenti storici) è la disinvoltura della sintetizzazione finale in poche immagini che riassume in una manciata di minuti il ribaltamento teorico di ciò che abbiamo visto durante tutto il film. E’ forse proprio su questo piano che il regista sembra voler giocare sporco (ma potremmo perdonargli le incongruenze se il clima, le psicologie, le evoluzioni fossero presentate e “raccontate” con la necessaria attenzione, cosa che invece purtroppo non è, visto che le psicologie sono praticamente tagliate con l’accetta, e anche le tensioni stentano a decollare perché tutte in superficie senza che si avverta una pur sottesa volontà intenzionale di scavare davvero in profondità. Lo spessore “superiore” che acquista il personaggio di Eisenheim, l’unico degno di nota, è infatti attribuibile esclusivamente al contributo determinante dell’interprete, carismatico e ambiguo al punto giusto, praticamente “perfetto” per il ruolo). Mi auguro che il romanzo di partenza (non l’ho letto e non posso quindi valutarlo né confrontarlo) attualmente disponibile in libreria edito da Fanucci, abbia elementi intrinseci di valore che “avvolgano” e attraggano in maniera maggiore della pellicola, che si risolve (purtroppo) forse persino al di là delle intenzioni, in una semplice storia di amore contrastato (un po’ alla Giulietta e Romeo se si vuole, alle cui vicende, sembra volerci rimandare anche nelle impreviste soluzioni di un finale molto semplificato e poco realistico), ma nemmeno “tanto potente” e inaffondabile (almeno per quel che si può percepire). Immagino che il libro, la scrittura, abbia caratteristiche di coinvolgimento che la fama del suo autore lascerebbe supporre e che potrebbe compensare molte delle pecche della pellicola (le immagini spesso sono meno suggestive e incantate della parola nonostante l'apporto di un'ottima tecnica di ripresa che si risolve in una fotografia che ben delinea per lo meno le "atmosfere" oscure degli interni teatrali), e forse ci sarebbe stato bisogno di una traslazione affidata a una mano che avesse il coraggio di osare di più, andando ben oltre la patinatura laccata di una confezione probabilmente ineccepibile nella forma, ma sterile, senza palpiti, quasi televisiva nella struttura formale, a partire dalle ambientazioni, “perfette” ma di maniera. Una qualità questa che probabilmente Burger possiede (per lo meno la parte iniziale più “magica e creativa” lascerebbe intravedere una possibile evoluzione in questa direzione) ma che non ha avuto la voglia o la forza di imporre o di portare avanti con coerenza (mi auguro per inesperienza, non per scelta programmatica). In fondo è “solo” la sua seconda opera questa “scivolata”, possiamo lasciargli tempo per l’appello senza preventive condanne!!! Vedremo in seguito e valuteremo meglio le sue competenze! Per il momento comunque, confermo che qualche (più d’una) riserva è lecita e giustificata. Per quanto riguarda gli attori c’e da evidenziare solo l’ottima prestazione di Norton…(e lo sottolineo ancora una volta, perché questo è il “vero pregio” del film insieme alla musica di Glass e alla fotografia che avrei semmai voluto un pò più carnale). Il resto... è silenzio (o quasi), ed è una critica di “insufficienza” dovuta anche alla scarsa consistenza dei personaggi loro affidati, che coinvolge sia Rufus Sewell l’antagonista e il rivale, un “cattivo” di maniera (quasi da operetta, e non vuole certo essere un complimento il mio) che Jessica Biel, una presenza più decorativa che “palpitante”. Finiamo con Paul Giamatti, di solito anche lui un attore coi fiocchi ma che qui è poco più di un ectoplasma che fa davvero quel che può (e non è molto, anzi direi che è davvero pochissimo) per tenere in piedi un personaggio oggettivamente “inesistente” che tenta di risolvere mettendogli a disposizione solo quel minimo di tecnica necessaria a non buttarla completamente sul ridicolo, ma con una certa dose di svogliatezza che esclude chiaramente il coinvolgimento della partecipazione emotiva nella costruzione di un “carattere” che normalmente contraddistingue l'ineccepibilità della sua resa artistica.

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