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The Cure

Regia di Kiyoshi Kurosawa vedi scheda film

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La recensione su The Cure

di UjiOgami
10 stelle

Cure, il film più teorico di Kurosawa Kiyoshi, è al tempo stesso straordinario thriller psicologico e atipico horror metropolitano.

In due mesi tre omicidi, perpetrati apparentemente senza motivo e da persone diverse, hanno in comune una incisione a X praticata al livello del collo di ogni vittima. Il detective Takabe (Yakusho Koji, uno dei migliori attori giapponesi in circolazione), aiutato dal suo amico psicologo Sakuba, cerca di fare luce sugli eventi. Nel frattempo, su una spiaggia, un uomo che non ricorda nulla di sé vaga senza meta finché non viene aiutato e portato a casa da un giovane insegnate. Il giorno dopo l’uomo senza memoria è sparito, mentre la moglie dell’insegnate viene trovata uccisa. Un accendino sembra avere strani poteri ipnotici…

Kurosawa non ha nascosto che l’idea per un film del genere gli sia venuta dalla fascinazione derivata dalla visione de Il silenzio degli innocenti di Jonhatan Demme. Qui però non è tanto importante sapere chi e perché uccide – d’altronde si capisce ben presto il coinvolgimento di Mamiya – ma gli aspetti psicologici e quelli sociali che emergono dalla vicenda. Come in tutti i grandi film, anche in Cure la forma si fa sostanza. La messa in scena di Kurosawa infatti rappresenta un approccio innovativo e intelligente al genere, poi ripreso da tutti i registi del “nuovo horror giapponese” anche se raramente con la stessa efficacia. Con numerosi e asettici piani sequenza, una quasi totale assenza di commento sonoro, ambientazioni cupe e fatiscenti, personaggi tormentati, Kurosawa rende palpabile un’inquietudine che serpeggia costante per tutta la durata della pellicola arrivando in alcuni momenti a toccare l’horror pur senza mai mostrare alcuna scena violenta o soprannaturale; un risultato riuscito a una quantità di regista che si conta probabilmente sulle dita di una mano. Senza mai usare effetti speciali e rinunciando del tutto a quei climax a cui siamo abituati da sempre, Kurosawa riprende l’orrore metropolitano con quieta pacatezza, squarciata poi da repentini lampi di violenza, ancora più terribile perché improvvisa e apparentemente immotivata. Magnifica a tal proposito la scena dei due poliziotti, ripresa con camera fissa per aumentare il distacco dello spettatore da quella apparente follia, ma allo stesso tempo inquietante perché girata dal regista come se stesse riprendendo una normale scena tratta dalla quotidianità. E ancora, scene apparentemente innocue, come le riprese di un accendino o dell’acqua versata in un bicchiere, assumono un significato pregnante, arrivando davvero a ipnotizzare lo spettatore e farne percepire tutta la carica “mesmerizzante” (tema importante all’interno del film).

La parte psicologica infatti non è di certo meno interessante. Una delle annotazioni più originali fatte da Kurosawa durante l’incontro (Venezia, 8 marzo), così tragicamente realistica a pochi giorni dal più devastante terremoto di sempre abbattutosi sul Giappone, è il fatto che mentre nell’horror occidentale il fantasma è spesso indissolubilmente legato al luogo a cui appartiene (si pensi ai tipici fantasmi dei castelli), in Giappone gli spiriti si trovano spesso “fuori luogo”, poiché tra incendi e terremoti gli edifici giapponesi vengono ricostruiti molto spesso, essendo inoltre concettualmente molto differente l’idea di “conservazione dei beni”. Questo “spaesamento” dei fantasmi (che sembra contrastare la visione di un film come The Grudge) rende ancora più inquieti gli spiriti che non possono trovare pace nemmeno nell’appartenenza spaziale ad un luogo, arrivando così a quell’”infinita solitudine” che li porta a disperarsi e chiedere aiuto ai vivi come succede in Kairo (Pulse, 2001) con un comportamento decisamente diverso rispetto a quello dei violenti spiriti occidentali.

Anche Mamiya, l’uomo senza memoria, chiede aiuto a chi lo soccorre, dice di essere un uomo karappo, ovvero vuoto, che cerca se stesso negli altri spingendoli a prendere coscienza del proprio subconscio.  Il film sembra fratello maggiore del successivo Suicide Club (2002) di Sono Shion: in entrambi si mette in dubbio l’identità dell’individuo, in entrambi si usano simboli scavati nella carne per contraddistinguere questo “morbo”. Chiedendo a tutte le sue vittime “Chi sei?” emergono identità “deboli”, categorizzate per posizione sociale o famigliare, senza una vera e propria coscienza di sé; Mamiya, allora, fa emergere in loro quei contrasti repressi che portano a reazioni violente, spesso indirizzate a persone vicine, mogli o colleghi; le sbarre delle gabbie nelle quali si rinchiudono. Forse non è un caso che il segno distintivo di ogni omicidio è una X praticata sul corpo della vittima; uno sfregio, una incisione quasi chirurgica dalla quale l’assassino sembra voglia estrarre la parte di sé che l’altro aveva “rubato”, riappropriarsi della propria identità, far emergere l’essenza (di sé, dell’altro, di entrambi).

Mamiya, essendo vuoto, è un simbolo, un simulacro che ognuno riempie con un significato personale: lo si potrebbe leggere come quello stesso “male assoluto” incarnato dal personaggio di Asano Tadanobu in Bright Future o più banalmente come un serial killer psicopatico che si è spinto troppo oltre nei suoi studi di psicologia. Sta di fatto che nessuno resiste al suo incantamento. Anche Takabe, il detective, che nelle sue ricerche pone inizialmente la logica di fronte a tutto contrastando così Mamiya, scivola man mano in uno stato semi allucinatorio. Nella discesa negli inferi della sua coscienza sembra progressivamente identificarsi con l’altro, prenderne il posto, fino ad arrivare a un finale cupo senza redenzione e l’ultimissima scena, ambigua e sospesa (attenzione ai dettagli!), mette i brividi.

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