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Diario di uno scandalo

Regia di Richard Eyre vedi scheda film

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La recensione su Diario di uno scandalo

di spopola
8 stelle

Magnifico e ossessivo, è un film personale e potente che riesce ad adattare alle esigenze di una coerente trascrizione drammaturgia per lo schermo ogni ambigua sottigliezza anche di tipo compulsivo del romanzo. Qui davvero tutto si amalgama alla perfezione e viene esaltato alla massima potenza dalla prova superba delle due protagoniste.

Posso definire questa pellicola una delle più gradite (e per certi versi “inaspettate”) sorprese della corrente stagione cinematografica. Mi spiego meglio: conoscendo la struttura del romanzo, consideravo particolarmente difficoltosa (quasi impossibile) una trasposizione in immagini “autonoma”, personale e intrigante, capace di “tener testa” alla coinvolgente intensità della parola scritta, e conseguentemente nutrivo seri dubbi sulla possibilità di un risultato “cinematografico” analogamente appassionante e appassionato, ritenendo di poter auspicare al massimo l’ipotesi di una corretta e un po’ laccata “illustrazione” esteriorizzata della storia senza particolari introspezioni, impreziosita semmai (e forse per me “giustificata” e “accettabile”) solo dall’ottima prova recitativa delle due protagoniste già data per scontata persino prima di aver visto il film. E’ stato quindi decisamente affascinate rilevare invece che il regista ha saputo trovare la giusta chiave interpretativa, grazie anche all’apporto di una magnifica sceneggiatura di Patrick Marber (al quale, se non erro, si deve anche una consistente fetta della positività del risultato di “Closer” di Mike Nichols) che ha trasformato il “diario” personale di una “devianza cattiva” in un dramma polifonico a più voci, complesso e compatto quanto “implacabile” nella definizione dei caratteri dei vari “attori in commedia”. Un modo diverso da quello tutto interiorizzato di Zoe Heller – ma analogo nel risultato, e particolarmente confacente al “mezzo” utilizzato - di tessere questa spessa tela che si addensa sempre più vischiosa e indistricabile all’interno della quale l’ingenua e coercibile Sheba Hart rappresenta la mosca, mentre la “cattiva bambina invecchiata” Barbara Covett, inacidita dalla solitudine e dal desiderio represso” assume le caratteristiche dell’implacabile ragno in attesa, pronto a ghermire la sua vittima quando ogni via d’uscita risulterà preclusa. Un “balletto implacabile” quello realizzato con estrema perizia tecnica da Richard Eye ritornato “grande”, condotto sulle note avvolgenti di una esemplare colonna sonora di Philip Glass mai prevaricante che è il giusto e prezioso “tessuto musicale” costante ed “invasivo”, che fa da contrappunto sonoro al “crescendo drammatico”: musica e immagini si integrano magistralmente, diventano “incalzanti” e necessarie fino ad assumere le caratteristiche di un’unica, complementare partitura nella quale i due elementi non sono più scindibili fra loro, tanto risultano coerentemente integrati l’uno nell’altro. Una “tragica” storia di desiderio e manipolazioni quella che ci viene impudicamente esposta in un crescendo sempre più intenso e desolato, intrappolato in un universo emarginato e claustrofobico, bigotto e convenzionale, dove per chi è solo e inacidito – e i tempi che viviamo accentuano pericolosamente questa tendenza – è più facile forse “inventarsi” un amore che viverlo veramente. E il regista è capace di farci percepire anche sensorialmente il freddo glaciale ed avvolgente di solitudini frustrate e senza speranza (ma non per questo giustificabili nella loro perfidia), il dolore e il vuoto di chi non ha conosciuto (o non ha voluto farlo) il contatto “caloroso” di interscambio con altri corpi ed altre sessualità “ed è così cronicamente inviolato e indisponibile, che il solo sfiorare la mano di un conducente di autobus può essere un elemento disturbante e sufficiente a provocare una scossa di desiderio così forte da essere percepita fino nelle parti più intime e far per questo avvertire il peso del proprio “deserto interiore e fisico”. Il nucleo della storia è sempre rappresentato dai pensieri “segreti” di Barbara, anziana insegnate di storia di una scuola periferica della provincia inglese, rinchiusa fra burocrazia ipocrita, bullismo e indolenza, quei “pensieri inespressi” - che rappresentano ciò che non può né vuole dire ad alta voce (e forse nemmeno ammettere) costretta com’è da anni in un ruolo e una segregazione che non le appartengono - ma che annota con pervicace diligenza sul suo personale diario nel quale riesce a travasare le inconfessate valenze di quella crudeltà sottile mascherata di perbenismo che la corrode fino a farli diventare l’inquietante realtà delle sue mire scellerate. Barbara è dunque un’arida e avvelenata zitella inacidita che nasconde dietro il suo distaccato disincanto la solitudine frustrante di un desiderio sessuale inappagato, ma che non mira al “rapporto” sessuale effettivo ed acquietante che potrebbe in qualche modo per lo meno “riscattarla”, ed esplicita il suo disagio nella più “semplicistica” necessità di “accaparrarsi” un’anima, di “possedere” all’interno della sua casa, fra le quattro mura della sua cameretta un altro corpo, semplicemente da sfiorare e da condividere, qualcosa di esclusivo e personale, sottratto per sempre al resto del mondo. E’ una donna carnefice oggettivamente incapace di amare, lesbica per convenienza più che per naturale predestinazione, che conosce un solo tipo di “coinvolgimento passionale” che è semplicemente mentale e quasi esclude la fisicità (o la considera non determinante o assoluta e prioritaria), egocentricamente esclusivo e “personale” quasi “autoeroticizzante” e per questo facilmente interscambiabile perché permette di modificare senza particolari traumi l’oggetto delle attenzioni e del desiderio a seconda delle necessità e degli avvenimenti: “deve” esserci semplicemente qualcuno – persona o animale - all’interno della sua cameretta, qualcosa che diventi un “privato ed esclusivo possedimento” (quasi un retaggio di stampo coloniale quindi), unica “condizione” possibile che consenta di sentirsi (o considerarsi) davvero viva e pulsante, integrata in un mondo che da troppo tempo non capisce e non accetta più. E i suoi pensieri e le sue attenzioni si concentreranno così sulla nuova insegnante d’arte, la bella e irrequieta Sheba, a sua volta insicura, ingenua e coercibile (e quindi una preda particolarmente “accessibile”). Prima maliziosi e quasi irridenti, prenderanno via via sempre più la consistenza e gli indirizzi delle finalità previste e desiderate (c’è bisogno di qualcuno che prenda il posto della defunta gatta Porthia e della precedente insegnante fuggita spaventata dall’abisso all’interno del quale si sentiva precipitare) fino a diventare pericolosamente cupi e ossessivi, così particolari e assoluti, da non arretrare nemmeno di fronte alle conseguenze di quello scandalo volutamente provocato, determinando le condizioni perché siano rese pubbliche le rivelazioni dell’amore “proibito” dell’inquieta Sheba per uno stronzetto brufoloso, studentello della stessa scuola, a sua volta subdolo manipolatore di una irrequietezza indifesa, e trascinarla così nel vortice dello scandalo, sottraendola alla famiglia (due figli di cui uno down), al marito e persino al giovanissimo amante per “farla finalmente sua”, “accaparrandosela” in esclusiva, sia pure per un fugace e non prolungabile periodo. Davvero terribile e “definitivo” questo racconto che evita mollezze o cedimenti moralistici, per affrontare con toni quasi da horror metafisico carico di suspense, questa “tragedia dei sentimenti contemporanei”, questa manipolazione perversa e reiterata (vedi la scena conclusiva sulla panchina, quando la ragnatela si apre per accogliere un’altra possibile vittima predestinata) che è anche il ritratto riflesso di una società attonita e poco comprensiva, capace solo di emettere condanne, ma non di capire. La forma cinematografica utilizzata dal regista, in perfetta sintonia con lo script, utilizza spesso – soprattutto nella parte conclusiva della vicenda - la tecnica “ansiogena ed avvolgente” del montaggio alternato, ed è un procedimento che si dimostra davvero esemplare nelle sue modalità fatte di “rimandi” per rivelare gradualmente prima il gioco per attirare Sheba nella trappola, poi per sciogliere i nodi e restituire l’intatta visibilità della tragedia e rendere consapevole la vittima del baratro nel quale è precipitata e delle conseguenze inarrestabili. Magnifico e ossessivo, questo “Diario di uno scandalo” si conferma un film personale e potente che riesce davvero ad adattare alle esigenze di una coerente trascrizione drammaturgia per lo schermo (e a dinamicizzare) ogni ambigua sottigliezza anche di tipo compulsivo del romanzo, rendendo “palpabili e pregnanti” le sfumature più riposte di una “dannazione”. Qui davvero tutto si amalgama alla perfezione: del rapporto regia/sceneggiatura/musica si è gia detto, come si è già accennato alla intelligente “trascrizione” per lo schermo del romanzo d’origine. Rimane quindi da parlare solo degli interpreti che sono un altro e non secondario elemento di valore, un prezioso parterre di attori, tutti così intensi e partecipativi da meritare il plauso riconoscente ed ammirato per un risultato coinvolgente ed emozionale, frutto di un perfezionismo non istrionico ricreato a freddo con la sola tecnica, ma costruito dall’interno, con l’intensa partecipazione emotiva dell’anima, una caratteristica questa che rende davvero unici e indimenticabili i risultati, soprattutto per quanto riguarda le due intense protagoniste. La prova di Judi Dench non è davvero facilmente dimenticabile: insinuante, disperata, ironica, fredda e determinata eppure dolorosa, un ruolo “alla Bette Davis” che organizza con ineguagliabile finezza e una personale aderenza anche “fisica” spesso facendo recitare le “imperfezioni” decadenti di un corpo invecchiato e in disfacimento, le rughe, il fremito di una mano o semplicemente il movimento delle sopracciglia (basterebbe la scena nella vasca da bagno per decretarne l’inquietante e irraggiungibile grandiosità della sua recitazione). Cate Blanchet, che si conferma una attrice di straordinarie capacità, non è assolutamente da meno ed è capace di tenerle testa con spavalda baldanza e analogo coinvolgimento (e il suo è certamente il personaggio più difficile, certamente quello più “pericoloso” da rappresentare): sublime e “immatura”, appassionata e ingenua, disperata e risoluta, ci offre probabilmente qui la prova più matura e sofferta di una esemplare carriera in crescita meritevole di particolare attenzione. Davvero splendide le loro aratterizzazioni un dittico “speculare” quello offerto dalle due attrici, che risulta magmatico e di inarrivabilee pregnanza. Degno di menzione e di nota anche il versante maschile: il giovanissimo Andrei Simpson fa egregiamente la sua parte (perché non soffermarsi sulla muliebrità del suo sguardo così ingenuo ed infantile nelle prime apparizioni, tenero e “bisognoso” quando a sua volta tesse le sue trame, e altrettanto determinato ed “egoista” quando i giochi sono ormai fatti e il traguardo è raggiunto e non c’è più bisogno di camuffarsi e di recitare una parte così lontana dalla sua reale essenza?: solo un interprete dotato e carismatico è capace di simili finezze) così come risulta ben caratterizzata la resa del marito da parte di un ottimo Billy Nighy che si conferma attore professionale e accorto.

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