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La cena per farli conoscere

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su La cena per farli conoscere

di LorCio
7 stelle

Sandro Lanza è un attore disperato: ogni notte sogna di incontrare Pietro Germi che gli propone un fantomatico remake di Divorzio all’italiana; la produzione della soap opera, Charme, alla quale partecipa da dieci anni nel ruolo di Helgher de la Rosa, lo sta mettendo da parte; la ragazzetta che ha piazzato lui nella soap se la fa col figlio del produttore; l’intervento di chirurgia estetica agli occhi gli va male, lasciandolo guercio; le tre figlie disseminate tra Roma e Madrid e Parigi lo ignorano. Quando tenta il suicidio “in diretta” – per mera pubblicità – le pargole, che assistono al declino del padre, non sapendo come liberarsene, decidono di farlo incontrare con un’esaltata autrice di bizzarre biografie, Alma Kero. Non va bene. È l’inizio di una nuova vita? Forse, chi può dirlo. Finisce male, finisce bene: dipende dai punti di vista.

 

Che Pupi Avati stia vivendo una seconda giovinezza è cosa arcinota. E che si diverta a girare film apparentemente diversi tra loro, ma profondamente simili, pure. E allora, dopo aver riassaporato un passato troppo passato ne Il cuore altrove, un presente che in realtà era puramente passato (il suo) in Ma quando arrivano le ragazze? e rappresentato un tempo mica troppo remoto ed elegiaco ne La seconda notte di nozze, stavolta fa i conti con i beceri giorni nostri e non le manda a dire a nessuno. La cena per farli conoscere, nonostante il deviante sottotitolo “commedia sentimentale”, è il suo film più lucidamente disperato, o almeno quello più irrimediabilmente malinconico. Che la malinconia sia cifra costante del cinema avariano è appurato, ma stavolta non si mischia con l’abituale nostalgia. Parte da dove finiva Ma quando arrivano le ragazze?, dall’incontro, dopo alcuni anni tra Gianca e Nick, da quell’atmosfera amara ma non mesta.

 

La cena è sì una commedia, ma più che sentimentale verrebbe da dire aspra, inquieta. Ponendo al centro la figura di un individuo pressoché patetico, Avati disegna “la tragedia di un uomo ridicolo” con sensibilità ma anche con crudeltà, evitando sentimentalismi inutili e passaggi stucchevoli. In fondo non dice molto, l’autore parla poco di se come ci ha abituato negli ultimi tempi – anzi, più che nel protagonista si identifica con le tre figlie, tutte prese da altre faccende affaccendate, e ciò favorisce il suo sguardo più distaccato, più controllato. Non dice molto, sì, ma lo dice con effetto. E nella sua personale galleria di personaggi originali, Diego Abatantuono, ancora una volta al servizio del suo padrino Avati, centra il bersaglio con un ruolo assolutamente penoso, verso il quale si riversano molte crudeltà – anche beffarde – del regista e sceneggiatore. Accanto a lui, si muovono con puntualità l’algida Ines Sastre, la caliente Vanessa Incontrada e la dolce Violante Placido, affiancate da un bravissimo Fabio Ferrari che tratteggia il suo marito perverso con rara energia, e da una insolita Francesca Neri nel ruolo migliore che le sia capitato negli ultimi anni. Anche lei in un personaggio patetico e penoso, ma, a differenza di Lanza, ne è consapevole.

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