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The Good Shepherd. L'ombra del potere

Regia di Robert De Niro vedi scheda film

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La recensione su The Good Shepherd. L'ombra del potere

di ROTOTOM
4 stelle

Circolare gente, non c’è nulla da vedere. C’è poco in effetti da vedere in questo film che gioca a nascondino con la storia dell’agenzia di agenti segreti più conosciuta del mondo, chiasmo che riflette la natura contraddittoria del paese che si ritiene il più libero del mondo. Dalla seconda guerra mondiale fino all’inizio della guerra fredda la vicenda narra le oscure traversie di un agente funereo e gelido (Matt Damon), figlio della patria che lo chiama a sorvegliare e garantire quella libertà dallo spettro, falso, del comunismo. C’è un po’ di tutto, gli Skulls & Bones supersegreta associazione studentesca che sotto forma di loggia fornisce gli studenti più brillanti alla politica, finanza, servizi segreti e quanto di più strategico e controllabile ci possa essere nel paese più libero del mondo. C’è la Cuba e la Baia dei Porci, la guerra segreta americana filtrata dallo sguardo di un supereroe mite, un burocrate del complotto lontano anni luce dall’iconografia sensualmente romantica della spia alla 007. Ci sono uomini che di mestiere, nascosti nell’ombra di una solitudine stordente che il potere a loro concesso impone, proteggono dai lupi il gregge di cittadini che formano la loro nazione. Ovvero il buon pastore del titolo. Al timone di tutta l’operazione un rappreso Bob de Niro, che si regala un cameo sulfureo, sotto forma di reclutatore di talenti per la zona d’ombra spionistica da nutrire costantemente, diabetico e progressivamente amputato alle gambe che muore pezzo per pezzo, lentamente a causa della cattiva circolazione che la malattia impone ai suoi arti. Come il suo film, Coppoliano nell’incedere, non circola e pezzo per pezzo, flashback dopo flashback, tra montaggi alternati e perle di sceneggiatura intrise di una retorica patriottica ingollata a forza, lentamente grippa, s’inceppa proprio nella forma, nello stile che perde epica diventando didascalico, schiantata dalla “forza” del tema trattato (40 anni di sotto-storia americana, poteri occulti e complotti) la regia non ha la forza di fornire seconde letture, stratificazione o almeno dinamicità alla messa in scena quasi non volesse sminuirne l’importanza del contenuto. Si avverte come nel maneggiare tanto, troppo materiale “importante” de Niro abbia accusato la sindrome del “braccino” del tennista limitandosi a fare il compitino, con la terribile paura di sbagliare o di offrire una lettura anche solo leggermente diversa da quella che l’America avrebbe potuto attendersi. Per dipingere una storia grande, ci vuole un grande pennello. L’ultra classicità ostentata permette di mantenere lo stesso tono, la stessa gradazione di colore dall’inizio alla fine, senza sbavature, senza impreviste colate di materia da riprendere, sicuro, piatto, rassicurante per chi fa e chi guarda. Così compresso dalla responsabilità del film, evidentemente anche la sua direzione degli attori ne ha pesantemente risentito. Grande parterre di famosissimi interpreti convenuti per offrire il contributo al grande Bob e alla grande Storia Americana, tutti consapevolmente sotto le righe, responsabilmente asciutti, coscientemente minimali ingessati in scene di raro immobilismo, inquadrati e implotonati diligentemente in fila per due a marciare senza possibilità alcuna di divagare. Arruolati in fin dei conti, attori burocrati al servizio della burocrazia dello spionaggio. Matt Damon, monoespressivo più che mai, ormai abbonato alle parti con le doppiezze più che gelido sembra smarrito, rigido nel colletto incravattato e colpevolmente identico sia nelle scene ambientate negli anni 30 che in quelle degli anni 60, non è credibile nelle parti di padre di un ventenne. L’unica cosa che lo distingue dai due periodi è il cappello calcato sugli occhi per invecchiarlo un po’. Analogamente la di lui moglie Angelina Jolie che si slabbra a forza e si sforza di rendersi plausibile ma non incide. Poi a seguire tutta una serie di fuoriclasse sprecati in parti poco approfondite: John Turturro, William Hurt, un tuffo al cuore con Joe Pesci che subisce la lezione di patriottismo da parte di Damon, scena finalmente azzeccata e che in unico guizzo offre un’asciutta riassunto del pachidermico film. Gli italiani hanno la mamma, i negri la musica, gli irlandesi la chiesa e gli americani la patria. Bastava questo forse, senza annacquare il lungo finale con lo snodo narrativo del figlio imbecille di Damon che si fa circuire da una fighetta, spia che poi si innamora veramente, la quale viene immolata dal patriottico, complottista, paranoico suocero sull’orlo delle nozze in una ridondanza di scrittura da fare inorridire. E’ tutto così questo film, tutto un’occasione sprecata, scena dopo scena emergono i punti deboli, pezzo dopo pezzo cede incapace di assimilare gli zuccheri che dovrebbero nutrirlo, diabetico e senza sostegno, cade come corpo morto cade. Sembra incredibile ma il punto debole maestro, la madre di tutti i punti deboli, proprio come quelli che nella storia servivano ai membri dei servizi segreti per riconoscersi e temersi l’un l’altro, è proprio Bob de Niro, nella finzione oscuro direttore di complotti malato e diabetico ma che come regista riassume su di sé tutta la debole consistenza di un film profondamente sbagliato.

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