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Il grande capo

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Il grande capo

di Peppe Comune
8 stelle

Ravn (Peter Gantzler) è il proprietario di un’azienda leader nel campo informatico. Ma ai suoi dipendenti ha sempre fatto credere che la proprietà dell’azienda appartenesse ad una multinazionale con sede negli Stati Uniti e che lui fosse un dipendente come tutti loro. Poi arriva il momento di vendere e Finnur (Friorik Por Frioriksson), l’acquirente islandese, chiede di trattare l’acquisto dell’azienda direttamente col proprietario. Ravn ingaggia perciò Kristoffer (Jens Albinus), un attore che dovrà recitare la parte del “grande capo” della sua azienda. Ma le cose va ben oltre i pochi minuti preventivati da Ravn e Kristoffer si vede così costretto a continuare la recita del “grande capo” anche con i dipendenti.  

 

 

“Il grande capo”di Lars von Trier è un film dalla leggerezza anomala, incline certamente a far ridere attraverso l’ironica rappresentazione fatta dei personaggi, ma anche a far riflettere per come gioca di sponda con temi importanti quali l’anonimia delle scelte aziendali e il labile confine tra l’interpretazione di un ruolo e la sua effettiva trasposizione nella realtà sociale.

“Si è l’inizio di un film, e anche se già può sembrare un po’ strano, restate li, perché chiunque può vederlo. Nonostante il fatto che quello che vedete sia il mio riflesso, credetemi, in questo film non c’è bisogno di riflettere. E’ una commedia e come tale è innocua. Niente pedagogia o formazioni di coscienze. Detto altrimenti, è semplice intimità. E quale modo migliore di spiccare il volo verso l’intimità che prendersi gioco della “cultura” con la “C” maiuscola ? Perciò, ecco a voi un attore pieno di se e disoccupato che però, miracolosamente, proprio in questo momento, ha trovato un lavoro, un lavoro molto particolare”.

Queste sono le parole dette dallo stesso Lars von Trier ad inizio film, una sorta di prologo che svela sin da subito la sua intenzione di fare del film un’ esercizio meta-cinematografico teso a creare un legame continuato tra il soggetto che racconta e l’oggetto della narrazione. I trucchi che emergono dalle capacità istrioniche dell’attore sono a disposizione di chi guarda, il gran capo, invece, che recita una recita nella recita, si assume la responsabilità di rappresentare, tanto la menzogna del potere, quanto la solenne verità che si recita a teatro. Alla maniera beffarda e provocatoria tipica dell’autore danese, che utilizza una tecnica di ripresa fintamente “improvvisata”, con una messinscena scarna ed essenziale per dare sostegno alla gravità della situazione, e dei piani fissi interrotti continuamente da un montaggio febbrile per far risaltare per contrasto la forza di dialoghi venati di paradosso. Si gioca sugli equivoci e sull'imprevedibilità di personalità divorate dal dubbio per fare di interni claustrofobici un emblematico spaccato di mondo.  

Il comico ed il drammatico camminano lungo lo stesso binario dunque, inclusi in uno stesso insieme che mescola giocosamente il lato caricaturale che emerge dall’impianto narrativo col senso del tragico evocato attraverso i continui riferimenti fatti sul teatro, la concretezza di posti di lavoro in pericolo con le metafore sottaciute forniteci da maschere iconiche. Chi è il grande capo se non il potere anonimo e sfuggente che non paga mai per le sue responsabilità ? Cosa si nasconde dietro l’altisonante qualificazione di un ruolo se non il simulacro di un capro espiatorio che immunizza le colpe di tutti gli altri ? Solo al cinema è possibile svelarne il volto, farne la personificazione tragicomica che sfugge all’oggettiva interpretazione degli umani mortali. Cosa sono i “sei saggi” che interloquiscono a turno con il grande capo se non delle pedine adagiate sullo scacchiere della vita ? Indispensabili o sacrificabili allo stesso tempo ? Il lavoro è l’unico ruolo che hanno imparato a memoria, la loro recita perpetua. L’ufficio è il palcoscenico dove poter impersonare la propria parte con il grande capo, diversa per ognuno perché ognuno ha la propria ide del grande capo, tante quante sono quelle volute dal regista occulto di tutta la commedia. L’ufficio è il luogo dove fanno pratica di creatività aderendo allo spirito “anarcoide” dell’automavision. Chi sono l’acquirente islandese, il suo assistente traduttore e la sua bella consulente legale, se non l’incarnazione farsesca del paradigma capitalista dell’accumulazione conservativa ? La grettezza imbevuta di pregiudizi elevata a sistema di vita ? Trattano solo con i loro pari, direttamente, ogni forma di mediazione è considerata come un’indebita ingerenza alla serietà imposta al ruolo che occupano in società. Cosa sono tutti quanti se non delle machere intercambiabili sottoposte all’arbitrio incontestabile di un grande capo ancora più grande ? Dei tipi d’autore intenti a confondere realtà e finzione, ciascuno per la parte che gli compete, con un ruolo attribuito ad ognuno dai disegni sociali, ed un altro che ognuno sceglie a piacimento in relazione alle situazioni di vita da dover affrontare. Cosa rappresentano gli ambienti chiusi e geometrici se non il tentativo di fornire delle coordinate al grande capo per permettergli di orientarsi tra la vastità delle situazioni possibili ? Degli attracchi emotivi cui attingere per non procedere a braccio fino allo svelamento acclarato della menzogna ? Un palcoscenico ideale dove si finisce per preferire il teatro perché è li che si fa pratica dell’unica recita che vale la pena di essere portata fino in fondo.

“Il grande capo” è un film che si presenta con un aspetto meno serio ed impegnato ma non è certamente meno cerebrale rispetto agli altri film che hanno caratterizzato il prima e il dopo la carriera cinematografica di Lars von Trier. Un film che certifica ulteriormente l’abbandono del “purismo cinematografico” propugnato dal dogma (in verità, rimasto mera teoria), sia per tono da commedia agrodolce adottato, che per la messinscena venata di furberia che subito chiarisce di voler ragionare in maniera divertita con la macchina cinema  sull’anonimia snervante dei “gran capi” del vapore economico. Un film godibilissimo che è piaciuto più di altri nati dalla mene dell’autore danese con delle pretese autoriali più marcate.     

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