Regia di Lars von Trier vedi scheda film
Calembour di metafore sociali, economiche, artistiche, genialmente intrecciate fra loro (lo script è di una precisione assoluta) il film sfocia in un finale beffardo e caustico: aldilà delle più assurde e paradossali dinamiche relazionali, ivi comprese le onnipresenti, fragili e infine vane spinte etico-culturali, il grande C-apitalismo rimane l'unico, invincibile monolite dell'esperienza umana, e ciò a prescindere da chi si trovi a incarnarne momentaneamente il ruolo principale.
Un paradigma teorico capace di trovare nella pseudo anarchia dello "stile Automavision" la sintesi linguistica perfetta all'uopo, asettica, frammentata e tagliente come la materia trattata.
Da demiurgo sopraffino e navigato qual'era (prima del recente periodo depressivo segnato da opere rimarchevoli e dichiarazioni pubbliche deliranti), Von Trier si ritaglia qui il ruolo del corifeo menzognero, danza con inusitata leggerezza e solita crudeltà tra meta-cinema e derive esistenziali, economia di mercato, verticismo aziendale e ricadute sociali, prendendosi pure il lusso di sovvertire e innovare alcuni dei canoni più stantii della commedia (dalla struttura e tipologia degli equivoci, alla costante variabilità dei meccanismi drammaturgici, fino alla schizoide e irresistibile caratterizzazione morale dei personaggi principali).
Firma in definitiva un sardonico quanto memorabile excursus nel genere, un capolavoro, ça va sans dire, incompreso.
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