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Il grande capo

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Il grande capo

di ROTOTOM
8 stelle

Work in progress, progetto della mistificazione della natura umana e del rapporto dell’uomo con i suoi simili attraverso, questa volta, l’artificio della commedia. Commedia molto semplice e come le cose semplici più profonda di quanto non sembri. Raul è il presidente di una azienda informatica che si mimetizza da impiegato per non prendersi le responsabilità delle sue decisioni e delega tutto ad un fantomatico Grande Capo che tutto governa, dall’ America, tutto valuta e decide tramite E mail, spedite ovviamente da egli stesso. Nel momento di vendere l’azienda il sospettoso compratore, un Islandese atavicamente iroso con i Danesi responsabili di 400 anni di dominazione sul popolo più occidentale d’Europa, vuole trattare solo con il Presidente in persona e non con un suo sottoposto. Ecco quindi la necessità di un capo-fantoccio, un attore in disarmo, assoldato da Raul per portare avanti la trattativa al suo posto. Il tutto filmato in Automavision, un sistema computerizzato che decide da sé l'inquadratura e la luce da utilizzare. Una nuova diavoleria di quel diavolo di Von Trier, sotterrato il Dogma, approda alla meta-commedia della de responsabilizzazione. La storia si dipana quasi tutta in interni spogli ed anonimi, privi di qualsiasi personalizzazione, locali in cui si perpetua l’inganno nei modi civili del più bieco capitalismo di cui Raul è faccia, modi, abito e portatore sano, incline ad avere tutti i privilegi del capo ma poco propenso a gravarsi del peso delle decisioni. Raul è “l’orsacchiotto” dell’ufficio, il più amato perché alla faccia degli ignari colleghi egli è solo uno come loro con la certezza però di una situazione lavorativa assolutamente di privilegio che lo rende naturalmente affabile. E’ l’uomo moderno senza coscienza e convinto del fine, esperto di mezzi, i contratti, trappola legale della società del capitale, contratti con i quali ingabbia l’attore che dovrebbe impersonarlo, ingabbia la propria coscienza di cui l’attore ne rappresenta il corpo e lo spirito. Arte pura contro calcolo e profitto. Meta-commedia della de responsabilizzazione perché lo stesso metodo usato da Raul nel film è utilizzato dallo stesso Von Trier nel girarlo, lasciando la responsabilità della regia ad un Grande Capo automatico che richiama a sua volta il fantomatico Grande Capo aziendale che spaccia decisioni per E mail. Il caso regola le conseguenze, il caso e la coscienza fatta corpo, commedia e spirito. L’attore irrompe nel tessuto grigio dei rapporti umani scanditi da orari e doveri con tutta l’istintiva e naturale carica vitale del commediante, falso per gioco, che vede nello svelamento plateale dell’inganno il realizzarsi sublime della rappresentazione esattamente come il suo idolo, il misconosciuto Gambini autore di commedie, insegna. E causa involontariamente l’acido finale che chiude il film. Si ride molto e si ride amaro nel seguire le sconclusionate vicende, i pasticci di questo film sospeso tra la farsa del teatro filmato tanto caro a Von trier e il demenziale d'autore. La voce off commenta e si dissocia dalla vicenda svelandone subito il meccanismo, l’autore regista non è responsabile della regia, il Presidente non si prende la responsabilità di decidere, l’attore nel tentativo di liberarsi del fardello prende in causa un ancor più fantomatico Grande Capo del Grande Capo: Il grande C ovvero Von Trier stesso ovviamente e di nuovo da capo riversando la responsabilità ad altri in un'ellisse per metà dentro e per metà fuori la storia che non identifica nessuno, se non chi guarda. Gli impiegati vedono solo quello che vogliono vedere e non si prendono la responsabilità delle loro vite, repressi e frustrati si ritrovano in anguste sale comuni riuniti come in terapie di gruppo, sotto l'egida terribile e salvifica del Grande Capo, capro espiatorio di tutto ciò che accade. E’ tutto un delegare ad altri ed altri ancora, in cui nessuno è colpevole e nessuno vittima, specchio di una società immatura e terrorizzata di perdere quel po’ d’amore che le consente di esistere, convinta che il non decidere sia meno doloroso e faticoso che assumersi le responsabilità. Così per questo tutto è grigio e monocorde, asessuatamente funzionale, asetticamente ergonomico, strutturato per non creare contrasti, ostacoli, all’urbana sopportazione. Paradossalmente l’unico che la responsabilità del proprio ruolo la accetta è l’attore che deve impersonare il Presidente, è il vero-falso che dà la scossa ad un manipolo di gente immobile. Non a caso l’ergonomicità della scrivania che cambia d’altezza elettricamente servirà da altare per un coito atteso e voluto da una ben disposta impiegata, un'altra accetterà una criptica proposta di matrimonio, le decisioni fatte finalmente corpo sul corpo dell’attore scaricano l’ira repressa di altri impiegati: Il pubblico. L’attore provoca con la sua arte, con il suo inganno a cui tutti per un po’ credono e il pubblico reagisce di conseguenza, così gli impiegati della società in pronta vendita reagiscono all’unica vera rappresentazione che si mette in scena di fronte ai loro occhi : la commedia del potere dal quale sono atavicamente attratti e sottomessi al tempo stesso. Non sapendo riconoscerlo si aggrappano all’unico brandello di realtà che si trovano di fronte, un attorucolo palesemente fuori parte, sostituendo nella sedia a capo tavola in sala riunioni, un orsacchiotto di peluche che impersonava quel fisico vuoto di potere che avrebbe dovuto scandire le loro vite. L’attore è talmente fuori parte, talmente poco credibile che gli impiegati magistralmente istruiti dal loro collega Presidente, non possono non credere che sia davvero lui, ribadendo l’assunto della compiaciuta cecità di chi ha l’assoluto bisogno di vedere. Come negli Idioti i rapporti umani venivano millantati, frantumati e masticati con le mandibole del senso di colpa nel mostrare l’handicap fisico e mentale in una agghiacciante commedia del grottesco, così in Dogville i popolani non riuscivano a penetrare con lo sguardo all’interno delle righe di gesso disegnate per terra, non accorgendosi delle nefandezze che si perpetravano all’interno delle fanta-case millantando un’urbana, indifferente cordialità al di fuori di esse, Lars Von Trier continua la sua opera di demolizione del rapporto umano, svelandone i tristi marchingegni che ne regolano le convenzioni, frantumandone le certezze in un montaggio frammentato e spiazzante che interrompe la naturale fluidità del narrato, le inquadrature automatiche relegano gli attori a margine, fuori campo o li schiacciano in soggettive invadenti, sovvertendo tutti i dogmi che regolavano il fare cinema, soprattutto il suo. Quei dogmi che proprio il regista danese, auto citandosi in quest’ultimo film, ha prontamente disatteso appena essi hanno attecchito, delegando ad altri la responsabilità di portarne avanti gli assunti. Fare il meta- regista di meta -cinema è uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Un Grande Capo, ad esempio.

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