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Non aprite quella porta. L'inizio

Regia di Jonathan Liebesman vedi scheda film

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La recensione su Non aprite quella porta. L'inizio

di scapigliato
10 stelle

Jonathan Liebesman firma la migliore variazione sul mito dopo il primo film della serie scritto e diretto da Tobe Hooper nel 1974 e che inaugurava, a un pugno di anni dai living dead di Romero, il new horror. Come la nouvelle vogue, o meglio ancora come il new cinema americano nato dalle mitragliate di Bonnie and Clyde (1967), anche il new horror risente delle nuove ventate culturali della fine degli anni '60, la messa in discussione della famiglia, della sessualità, dell'autorità, oltre che una nuova primavera stlistica e formale dove la libertà dell'atto creativo individua nuove forme, nuove immagini e quindi nuovi miti con cui rappresentare il mondo moderno.

Di quel Tobe Hooper del '74, Liebesman riprende molto. Se i cambi di canovaccio sono fisiologici – qui l'input orrorifico, la svolta tragica che scaraventa le giovani vittime nell'incubo della celebre motosega, non è nessun autostoppista, ma un semplice incidente stradale che letteralmente e simbolicamente ribalta e rimescola i personaggi estetizzandoli già come carne da macello, tumefatti e sanguinanti – va detto che l'intenzione autoriale di Hooper invece rivive nella perturbazione messa in scena da Liebesman. Infatti, se tralasciamo il prologo spiegazionista che fa luce sull'origine del "mostro" e che lo trovo sempre un espediente che dequalifica la magia del gioco mitico – un po' come le origini di Michael Myers in Rob Zombie: inutili – il resto della pellicola accumula situazioni, personaggi, oggetti, luoghi e topoi direttamente ereditati dal modello archetipale, mutuati dal precedente reboot del 2003 di Nispel, dotandoli di una dialettica loro specifica da non risultare mai banali né gratuiti.

In Liebesman la pornografia della violenza non diventa estetica torture fine a se stessa, perché innanzitutto non travalica il buon gusto pur essendo a tratti una visione insostenibile, ma viene così ben contestualizzata che non perde mai il calibro giusto. La vivisezione di Matt Bomer sul lettino di morte è una scena forte, ma non passa il segno. È contestualizzata all'interno sia di un orizzonte di aspettative horror, sia all'interno di una iconografia malsana di cui lo smembramento del corpo umano, parallelo a quello animale, è la caratterizzante del mito hooperiano. Si può, e si deve, infatti parlare di mito e di variazioni sul mito, tanto ha attecchito nell'immaginario collettivo non solo la figura di un bestione in motosega, ma di tutto il coté che lo supporta, dalla famiglia cannibalica, agli ambienti rurali dimenticati, isolati, sordidi, sporchi e pestilenziali che fanno di quel luogo un non-luogo cinematografico e politico. Di conseguenza tutte le scene specificamente splatter, con la loro deriva torture, non sono solo un gioco estetico, che già di per sé avrebbe il suo peso intelletuale, ma sono soprattutto il contenuto dialettico e politico di tutta la pellicola.

A conferma di questa forte intenzione autoriale del film è il non poco rilevante tema della guerra. Uno dei due fratelli protagonisti, Matt Bomer, è da poco tornato dal Vietnam e sta per ritornarci. Il suo fratellino, Taylor Handley, è invece novello disertore. Odia la guerra, è un hippy, e vuole scappare in Messico per non andare in trincea. Il viaggio dei due fratelli e delle rispettive ragazze è infatti il viaggio verso la salvezza del fratellino che a insaputa del maggiore non vuole arruolarsi. Narrativamente questo conflitto ideologico tra i due fratelli viene reso con lo scambio di ruoli e personalità tra i due davanti agli occhi dello sceriffo Hoyt – alias Uncle Charlie Hewitt – ansioso di sapere chi dei due è il disertore per ucciderlo violentemente. Questo innesca una spersonalizzazione del personaggio di Taylor Handley che da "vigliacco" diventa "soldatino" anche se solo idealmente e non nella realtà delle cose, per poi assumere il ruolo di novello guerriero pronto a sporcarsi di sangue.

L'ombra lunga della guerra pervade comunque tutta la pellicola essendone uno dei germi originari. Liebesman infatti, riprende da Hooper i temi cardine dell'horror rurale dei seventies topicizzandoli con intelligenza. L'ossessione per la carne – dal mito western della terra dell'abbondanza, le guerre del bestiame, l'industria, il business, il prodotto "carne", fino alla sua figurazione simbolica e derivata come i corpi della mattanza, la brama omoerotica del corpo altrui, l'ostentazione del corpo come prodotto esso stesso, etc – piuttosto che la degenerazione delle aree più povere del paese, la loro indigenza e ignoranza, la crisi economica, il fanatismo religiosio e nazionalistico, il potere WASP, l'avversione per tutto ciò che è bello, giovane e libero. Tutto questo è frullato in Liebesman con cura e attenzione per la credibilità del tema trattato, così come Hooper fece lo stesso oggettivando il tutto con il suo celebre stile documentaristico e al tempo stesso soggettivandolo con le distorsioni anti-naturalistiche proprie del delirio narrato.

La riflessione sul corpo quindi è proseguita in Liebesman secondo i canoni del genere. La povertà, sia economica che culturale, porta alla riemersione di istinti atavici e di una rabbia repressa che esplode soprattutto nell'ossessione monomaniacale del corpo. Il corpo altrui, soprattutto se è quello della giovane vergine irraggiungibile o del bel ragazzo che non siamo, è bramato sia per questioni narrative – Leatherface vuole una faccia nuova – sia per questioni ideologiche – Ronald Lee Ermey nei doppi panni dello sceriffo Hoyt e di Uncle Charlie Hewitt vuole massacrare i corpi per fame tanto quanto per punizione – e risulta quindi l'oggetto proibito di una guerra che si consuma diplomaticamente in Vietnam, ma che in realtà è combattuta internamente al Paese da secoli e coinvolge i padri contro i figli, e i fratelli contro i fratelli, in un'eterna drammatizzazione bellica del mito primitivo dello spargimento di sangue in luogo di quello spermatico. Il sesso infatti, esaltazione coreografica del corpo, è bandito e punito e la guerra non lo vuole. Gesù non lo vuole. Ed è così che il cerchio si chiude intorno alle celebri libertà personali e ne fa brandelli in nome di una disciplinazione fascista che genera mostruosità come gli Hewitt.

Interessante in questo nuovo capitolo – prequel/equel/sequel ormai non conta più nulla sono tutte varianti del mito originario – è la presenza di Ronald Lee Ermey che torna a vestire i panni del sadico capo famiglia, oltre che quelli del povero sceriffo Hoyt di cui prende l'identità. A briglie sciolte, l'ex Sgt. Hartman di Full Metal Jacket (1987), è irresistibile e senza freni. Gioca per accumulo sulla sordidezza del suo personaggio, pieno di battute azzeccate e rese incisive dalla sua figura attoriale. Come nel precedente film è lui il vero cattivo. È lui che si prende la briga di infierire sui ragazzi e su ogni povero malcapitato con violenza e orrore, aiutandosi con la presenza abominevole del nipote, o presunto tale, Thomas Hewitt ovvero Leatherface. Infatti, tra Ronald Lee Ermey e Faccia di Cuoio intercorre lo stesso rapporto che c'è tra il Doctor Frankenstein e la sua creatura. Il primo genera nella sua follia disturbata il secondo, lo nutre, lo ama, lo apprezza e lo incita a realizzarsi attraverso ciò che gli riesce meglio: la mattanza.

Ci troviamo così di fronte a un film che sa utilizzare figure archetipali, nuove caratterizzazioni, luoghi, ambienti e i topoi più riconoscibili del genere, per trattare temi di natura politica come la guerra e più profondamente tutti gli irrisolti di un mondo, quello dell'America imperialista e consumista, che covano dentro ogni suo cittadino, ma che si esternano nella violenza dei soggetti più primitivi a cui manca il dialogo con la diversità e la sua tolleranza. Il risultato è un futuro cupo e senza speranze, reso narrativamente dallo sterminio totale dei giovani protagonisti, senza lasciare la speranza di una fuggitiva, la solita eroina virginale, pronta a ricominciare daccapo.

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