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Le rose del deserto

Regia di Mario Monicelli vedi scheda film

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La recensione su Le rose del deserto

di spopola
4 stelle

Quello che colpisce prima di tutto (o per lo meno ha decisamente urtato le mie percezioni) è l’abborracciata sciatteria della messa in scena quasi dilettantesca che spinge la rappresentazione nelle pericolose vicinanze di una recita “amatoriale” quasi da dopolavoro ferroviario. Probabilmente il mio giudizio è particolarmente impietoso perché si tratta di un’opera “attribuita” alla mano di un regista che è stato spesse volte un “grande”, un “autore” che ha lasciato tracce indelebili, ricordi ed emozioni molto radicate al quale è comunque difficile perdonare certe imprecisioni, indipendentemente dalle cause che le hanno determinate. Qui in effetti si ha spesso l’impressione che lui abbia fatto soprattutto da prestanome (o da “copertura” per i finanziamenti) tanto la sua “partecipazione” risulta stanca e remissiva, un ectoplasma fisicamente presente ma lontano in spirito, che ha (probabilmente) lasciato molte volte agli altri il compito di girare e di “concludere”, come mi sembra possa ampiamente testimoniare l’altalenante tenuta della narrazione (che denoterebbe in ogni caso, ove ciò non rispondesse a realtà, un impoverimento senile decisamente sconcertante). Dovrei forse essere più conciliante e comprensivo considerando la venerabile età del regista? Francamente non ci riesco.. perché nessuno lo ha costretto a girare se il polso non era fermo come una volta, se la concentrazione difettava e le idee latitavano… e se penso per esempio ai risultati raggiunti quasi in contemporanea da altri “vecchi” ugualmente inossidabili solo di qualche anno più giovani (il Resanais del sorprendente “Cuori” o lo Iosseliani dello stimolante “Giardini in autunno”) mi sento semmai ancor più insoddisfatto ed irritato, perché le incerte reminiscenze delle antiche qualità del suo autore sono così sbiadite e annacquate, da creare uno sgomentato disappunto che non può assolutamente trasformarsi in indulgenza “buonista”. Tanto di cappello allora al coetaneo Risi che si tiene prudentemente lontano dalla macchina da presa: forse sarebbe stato opportuno che Monicelli avesse saggiamente seguito questo esempio chiudendo in bellezza il suo percorso, senza questa pericolosa (e a mio avviso) inutile scivolata verso l’anonimato, perché qui mi sembra che il risultato complessivo per illustrare ancora una volta una “tragedia” comunque coinvolgente e attuale come quella di qualsiasi guerra passata, presente e futura che è sempre (e particolarmente quando si parla dell’Italia) una esperienza fatta di illusione e disorganizzazione strutturale, con uomini strappati alla loro vita e relegati al ruolo di “soldati in uniforme” mandati a combattere e morire per una causa e un obiettivo che non conoscono e forse nemmeno condividono- carne da macello per l’altrui gloria - nonostante le nobili intenzioni, finisca per pendere troppo spesso e inesorabilmente verso la “caricatura farsesca” eccessivamente tipicizzata alla “Sturmtruppen” per intenderci (riferendomi al film non al fumetto), ovviamente senza quell’accumulo di esuberanze volgari e grossolane, e con maggiore tenuta complessiva, non solo tematica ma anche di costruzione generale. L’impostazione che sembrava voler ripercorrere stereotipi vicini a pellicole miticizzate come “La grande guerra” o “L’armata Brancaleone” poteva essere quella giusta, sicuramente in sintonia con le fonti letterarie di riferimento, ma la scarsa qualità inventiva dimostrata in questa occasione, rasenta semmai solo la ripetitività “omogeinizzata” del cliché, mentre la mancanza di quell’ironia cattiva e ormai forse irrimediabilmente perduta (privata per altro del fattivo contributo “creativo” della recitazione di quei “grandiosi” interpreti oggettivamente insostituibili) finisce per far diventare il tutto un pericoloso boomerang. Ogni tanto ovviamente emergono “brandelli” di un passato glorioso (le sole scene in cui Monicelli ci ha messo “davvero” lo zampino?) come quelli del matrimonio per procura del soldato sardo defunto, o del pedinamento nella casbah, momenti equilibrati e privi di retorica, secchi ed immediati nel loro coinvolgimento, capaci di trasformarsi ancora con pochissimi tratti, in emozione “vera” e profonda. Ma sono piccoli “lampi”, isole (o meglio oasi ) nel deserto.. e il deserto è implacabilmente costituito in grandissima parte (consentitemi di ripetermi) da una inadeguata, insufficiente realizzazione tecnica dalla quale il regista non è riuscito ad affrancarsi, forse in parte imputabile alla scarsezza dei mezzi (ma non è una giustificazione: Crialese con un budget immagino analogamente non eccelso, è riuscito a rendere indimenticabile un viaggio – e non solo - giocando di rimessa utilizzando l’inventiva della fantasia, per esempio attraverso il rimando degli sguardi, senza quasi nulla mostrare di una nave che sarebbe risultata oggettivamente inadeguata se presentata nella sua interezza di povero e disarticolato peschereccio di recupero quale in effetti era). I difetti sono infatti maggiormente imputabili a una macchina da presa spesso imprecisa e “vagante” quasi “insicura” (e si sta parlando di un nome collaudato e di provata esperienza che proprio sotto questo versante non dovrebbe mostrare “titubanze”), una scenografia a volte di cartapesta e una traccia sonora addirittura disturbante (per non dire abborracciata) come possono testimoniare con impietosa evidenza quegli “impossibili” bombardamenti aerei che determinano “scoppi” chiaramente procurati dal basso verso l’alto anziché viceversa. Pecche strutturali davvero improponibili ai giorni nostri, che nemmeno la “generosa” prestazione di quasi tutti gli interpreti riesce a nobilitare o anche semplicemente a compensare e mi costringe inesorabilmente ad esprimere (per altro con estremo dispiacere) un giudizio complessivamente negativo.

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