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L'inverno ti farà tornare

Regia di Henri Colpi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'inverno ti farà tornare

di spopola
8 stelle

Anche per questo titolo, la traduzione italiana è così differenziata da snaturare un poco il senso della pellicola e fuorviare lo spettatore disinformato, anche se oggettivamente non la tradisce (ma per capirlo dovremo arrivare alla conclusione dell’opera). “L’inverno ti farà tornare” infatti scelto per l’occasione per la nostrana distribuzione, fa immaginare qualcosa che si avvicina al melodramma, un fotoromanzo appassionato degno di Grand Hotel, per il suo impatto un po’ a effetto, il che non rende assolutamente giustizia all’opera e alla sua delicata, quasi impalpabile, seppure ambiziosissima, consistenza. Come ripeto, non si tratta di una scelta del tutto peregrina, ha un fondamento inequivocabile nel finale del film, dove però assume un significato molto preciso che solo la visione del film può farci percepire nel giusto senso. Ovviamente l’originale (“Une aussi longue absence”) è decisamente più appropriato e pertinente e soprattutto tale da non permettere equivoci interpretativi. Il fortunato regista del film risponde al nome di Henri Colpi (già montatore di chiara fama e collaboratore di Resnais anche per “Hiroshima mon amour”) che - possiamo dire - proprio e solo con questa sua opera prima, raggiunse l’apice della sua breve popolarità (e della sua altrettanto rapida carriera con solo 4 titoli complessivi all’attivo e nessuno dei successivi all’altezza – come risultato e riconoscimenti - di quello del debutto) grazie alla Palma d’oro vinta al festival di Cannes di quell’anno (il 1961 se non erro) ex aequo con il ben più robusto e complesso capolavoro Bunueliano che risponde al nome di “Viridiana”. Intendiamoci è tutt’altro che disprezzabile la pellicola di Colpi, ma è l’accostamento inevitabile del “merito” per quel premio condiviso con un “capolavoro” assoluto a mettere in forte evidenza la disparità di valore (soprattutto alla distanza) fra i due titoli e a indispettire un po’ per il singolare accoppiamento (la consueta, un po’ avvilente volontà francese di priorizzare autarchicamente e ad ogni costo i “frutti dell’ingegno” della propria terra che a volte è riuscita a produrre comunque risultati ben più aberranti di questo). Per tornare al film in oggetto, possiamo dire comunque che è certamente un prodotto nato sulla scia delle innovazioni anche linguistiche (e del successo) proprio di Hiroshima, con il quale condivide persino la fonte ispirativa: ancora uno soggetto di Marguerite Duras (rielaborato in fase di sceneggiatura, dalla stessa autrice con la collaborazione del regista e di Gerard Jarlot), di nuovo, e alla sua maniera “alla ricerca del tempo perduto”. Possiamo definire la storia come il ritratto di due solitudini, una altalena di sentimenti, di speranze, di dubbi e incertezze, rappresentata in un’aura un po’ crepuscolare e dimessa, quasi minimalista, ma di forte impatto emozionale che ben sottolinea il “vuoto” di due esistenze “solitarie” con differenti aspettative che si sfioreranno, ma non troveranno poi il modo di proseguire sulla stessa lunghezza d’onda. Il peso della scrittura, già così forte nel film di Resnais, è forse qui ancora più preponderante (seppure con minor carica poetica e una più trattenuta “carica” decadente) anche perché non è controbilanciato dalla presenza di un regista di analogo spessore e qualità, capace di rimettere a posto l’ago della bilancia fra i vari elementi (Colpi mette soprattutto a frutto ciò che ha “imparato” e sa, gestendo in maniera ottimale gli scarti temporali e i flussi della memoria e dei ricordi meno visivamente ostentati, è elegante e raffinato, partecipativo e commovente, muove benissimo la macchina da presa, costruisce con maestria le immagini e interseca con “perfezione” millimetrica i tempi del racconto,indubitabilmente questa volta molto più lineare e conforme, ma non possiede evidentemente il prezioso dono della “creatività” che aveva reso straordinario il contributo di Resnais). Forse allora il merito prioritario che possiamo riconoscergli è proprio quello di aver saputo stimolare al meglio i suoi attori, così da farli emergere con prepotenza per umanizzare la materia e renderla così più palpitante e partecipata. Questa volta la scrittrice mette a disposizione la sua scrittura avvolgente per raccontare una nuova, differente (e per molti versi analoga) angoscia (quella dei personaggi di cui tratta) e per tentare di collegarla a quella degli avvenimenti della storia, cercando come il suo solito, rispondenze precise, persino collegamenti di “causa” ed “effetto”. Lo spaccato che ci viene evidenziato, il dramma che prende forma, è quello della marginalità esistenziale di una anonima periferia parigina, facendole però assumere caratteristiche di analogia con quella che potremmo definire in senso lato come “l’organica debolezza della natura umana”. “Une aussi longue absence” è indubitabilmente un interessante (e anche notevole) film d’esordio, comunque: non si avvertono le incertezze della “prima volta” , c’è l’originalità delle situazioni e la delicatezza degli accenti (l’aver maneggiato tanto pellicola per le precedenti attività di montatore, è stato sicuramente un viatico importante per permettergli di “acquisire” sia pure dall’esterno, conoscenza pratica del mestiere della messa in scena che lo porta persino a giocare con sottigliezza la stimolante carta dell’ambiguità). La storia dunque, che è quella di Thérèse Langlois, una bella donna non più giovanissima cui dà volto e sostanza, una straordinaria Alida Valli, sincera, efficace e assolutamente veritiera, qui in una delle prove più impegnative – e riuscite - della sua carriera. Gestisce un caffè sempre pieno di clienti, ma deve fare i conti con la propria solitudine, poiché il suo adorato marito gli è stato sottratto negli anni della guerra, nel corso di un rastrellamento, per essere inviato in Germania in un campo di concentramento, nel quale potrebbe aver trovato la morte (non “certa” pero, perché il suo corpo non è stato identificato, e quindi il suo nome è catalogato nella folta schiera dei “dispersi”, che è una condizione di incertezza fortemente traumatica proprio per i superstiti che attendono e non possono per questo mai darsi pace del tutto). Lentamente sta cercando di rifarsi persino una vita con un camionista che le è sinceramente affezionato. Un giorno però davanti al caffè vede passare un cencioso, “dignitoso” vagabondo privo di memoria e di passato. Il suo cuore le impone di riconoscere in quell’uomo il perduto amore, e lei si aggrappa a questa idea con insensata cocciutaggine, cercando di risvegliarne la memoria, anche se è l’unica a “crederci” veramente, perché nessun altro ne riconosce le fattezze e i connotati (da qui l’ambiguità cui accennavo sopra, accentuata dal finale “aperto”). In un ultimo tentativo quasi disperato, giocherà fino in fondo le carte del ricordo, invitandolo a cena, facendogli ascoltare le arie delle opere che erano la passione del marito, preparandogli per cena i piatti che lui preferiva, ma inutilmente: il vagabondo invece di ritrovare la memoria, fuggirà quasi terrorizzato, si bloccherà solo un attimo quando la donna lo chiamerà col suo cognome, alzerà le braccia come per arrendersi a qualcosa che è più grande e potente di lui stesso (forse la scena più celebre del film) ma solo per un ultimo attimo di incertezza, perché poi si dileguerà per sempre nella notte scappando a gambe levate… Siamo in estate e Teresa non smorzerà per questo la speranza: “Non importa” dirà nel finale. “Ora che è estate, la vita è facile, si vive all’aperto senza difficoltà. Ma verrà presto l’inverno. E l’inverno lo farà tornare…” Da una parte dunque abbiamo Teresa, pronta da subito a “saltare” il fosso tanto è pregnante il bisogno di ritrovare il suo amore perduto, dall’altra il vagabondo, che non ha purtroppo analoghi desideri né voglie, proprio perché ormai non ha altro scopo se non quello di vivere alla giornata un’esistenza quasi “vegetale” dal quale forse è escluso definitivamente l’interscambio dei sentimenti. In filigrana, i grandi problemi tanto cari alla Duras…. La storia dei disastri della guerra (di ogni guerra)… dei prigionieri e di “assenze” , delle speranze indomite e mai sopite che chi come me ha vissuto proprio queste esperienze sulla propria pelle, conosce quanto sono tragiche e dannose per gli equilibri e la tenuta…. Qui però – e non è un fattore assolutamente secondario - la soluzione è incerta e fluttuante, non si approda ad alcuna “verità” acclarata, lascia il “dubbio” e l’interpretazione agli spettatori… tutto resta sospeso e incerto.. Della bravura della Valli ho già accennato. Ancor più convincente ed appropriato di lei è però il grandioso George Wilson, che fa del suo personaggio una creazione “perfetta”, entra nella parte con una naturalezza impressionante, la disegna con annotazioni sottili e impercettibili, rendendola una figura indimenticabile. Wilson, stanislawskiano di razza, non rappresenta un clochard, “è” il clochard, e l’identificazione risulta così aderente e viscerale da diventare a sua volta una creazione artistica a tutto tondo.

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