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L'invenzione di Morel

Regia di Emidio Greco vedi scheda film

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La recensione su L'invenzione di Morel

di joseba
8 stelle

Un uomo su una barca alla deriva approda su un’isola inospitale, sassosa, apparentemente disabitata. Ma dalle strane architetture che la sovrastano fuoriescono, di tanto in tanto, presenze fantomatiche vestite anacronisticamente. Chi sono costoro? Perché si manifestano all’improvviso e altrettanto improvvisamente svaniscono? Chi è Morel?

Vi scuso, se non avete ancora visto L’invenzione di Morel sono disposto a scusarvi. Se invece non avete ancora letto il romanzo di Adolfo Bioy Casares da cui il film di Emidio Greco è stato tratto, mi rifiuto di perdonarvi. Smettete immediatamente di leggere questa recensione e procuratevi in qualsiasi modo il libro.

Jorge Luis Borges introduce magnificamente (cinque paginette che valgono una montagna di saggi critici), Bioy Casares narra favolosamente: in poco più di 120 pagine lo scrittore argentino concentra una serie impressionante di questioni come la solitudine che conduce alla follia, l’impotenza umana di fronte alle forze della natura, il desiderio amoroso come possesso, la manipolazione delle coscienze, la fascinazione per l’immagine, il carattere vampiresco della rappresentazione e altre cosucce simili. Il tutto scandito da un dettato narrativo febbrile e delirante, riflesso cristallino di una mente provata dall’angoscia della persecuzione politica e dalla desolazione della fuga.

Già, perché l’anima del romanzo è un’anima politica, ansiosamente libertaria e struggentemente antitotalitaria. Non in forma di manifesto ovviamente ma in chiave potentemente metaforica: l’isola dell’eterno ritorno è anche l’isola del controllo e della segregazione. È l’isola della carcerazione delle coscienze, della perpetuazione della falsa coscienza: ideologia. E non sarebbe finita, l’isteria del melò graffia e spella, soffoca e assilla. Implacabilmente, fino all’ultima pagina.

L’adattamento di Emidio Greco, fiancheggiato in sede di sceneggiatura da Andrea Barbato, è assai coraggioso: l’impronta rigorosamente soggettiva non si converte automaticamente in voce narrante, nel chiaro proposito di scansare la soluzione didascalica. Greco si affida al comportamento del suo fuggiasco (Giulio Brogi offeso nel fisico, “leggermente vecchio”) per scolpire una geografia dello spaesamento esistenziale.

L’ostinato stupore dello sguardo del naufrago, impregnato di paura ed estraneità, grida il privilegio del dubbio, in antitesi con la “spensierata gaiezza” di un’eternità sempre uguale a se stessa. Il fuggiasco è l’uomo, lacero e consunto, che lotta contro la smaltata necrosi delle immagini. Le rappresentazioni integrali di Morel sono la morte che si presenta con gli attributi della bellezza. Alla riscrittura fenomenologica si accompagna la dislocazione geografica: se nel libro di Bioy Casares l’azione si svolge su un’isola tropicale umida e acquitrinosa, nel film l’isola è al contrario arida e rovente (siamo sul set di Malta).

Greco sfrutta splendidamente il teatro naturale, disegnando i movimenti del personaggio nello spazio come le traiettorie convulse e ininterrotte di un insetto. L’isola, pur rappresentando per lui l’unica salvezza possibile, è allo stesso tempo il segno aspro e ostile di una radicale disumanità. Costretto a sopravvivere tra rocce e fantasmi, il protagonista – autentico spectator in fabula per condizione e per simbolo – si fa veicolo di contraddizioni irriducibilmente umane. Tra desiderio di evasione e pulsioni di morte. Sfuma la dimensione del mélo, trionfa quella etico-filosofica in un finale di smorzata inesorabilità. Uomo contro macchina.

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