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Flags of Our Fathers

Regia di Clint Eastwood vedi scheda film

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La recensione su Flags of Our Fathers

di scapigliato
8 stelle

“Flags of Our Fathers” ovvero “Come ti distruggo l’eroe e la patria”. Se “Guernica” è l’urlo antibellico di Picasso, “Flags” lo è di Clint Eastwood. E valutarlo tanto come un’opera d’arte non è azzardato. Chiamarlo capolavoro è riduttivo, “Flags” supera il film di genere bellico e s’intromette di forza nella sensibilità dello spettatore. Ti si alza la pelle e ti si bagnano gli occhi dalla prima all’ultima scena, da quel sogno/incubo in cui il giovane Ryan Phillippe corre in una terra desertica color del carbone. Non un’anima, non una forma di vita. Solo una voce lontana che chiama insistente il giovane infermiere della marina militare. Da qui fino ai titoli di coda è tutta una torsione di sentimenti e di moti intestinali. Teste decapitate, braccia e gambe mozzate, corpi deflagrati, esplosi per metà, lerci di sangue e forse anche di merda. Quando scoppia la carneficina tutto si fa secco: gli spari, le morti, il taglio registico. Non c’è un filo di retorica, non c’è il minimo commento musicale, solo il rimbombo della morte e dei giovani corpi che si spezzano sotto il fuoco nemico. Nemico? Ma fino a che punto è nemico il nemico? Già in apertura, Harve Presnell, grande caratterista scelto da Eastwood per interpretare Dave Severance, dice: “Ho detto alle loro famiglie che erano morti per la patria”, pausa, e poi ancora “...ma non ne sono poi troppo sicuro”. Una dichiarazione d’intenti che fa il paio con le primissime parole del vecchio Bradley, il di cui figlio ha scritto il libro da cui è tratto l’omonimo film di Eastwood: “Non ci sono buoni o cattivi. L’eroe o la canaglia”. E a confermarcelo ci sarà il film gemello, speculare di “Flags”, ovvero “Letters From Iwo Jima” con cui Clint Eastwood ha voluto raccontare la celebre battaglia dal punto di vista giapponese. Un’operazione, questa, che la dice lunga sul suo regista che ha dichiarato di essere ormai stanco delle guerre; di essere cresciuto con film in cui i buoni erano i soldati americani di John Wayne e i cattivi i giapponesi, eredi degli indiani, dei negri, e progenitori dei cattivi russi e degli odierni mussulmani.
Cint Eastwood, il più grande regista vivente, ma mi azzarderei anche a dire dell’intera storia del cinema, ha saputo con la sua semplicità narrativa, a distruggere in solo due ore e mezza di film, tutto il mito eroico e retorico che una Nazione ha creato in parecchi decenni. Eastwood smonta non solo la veridicità di quella foto, che non è altro che la seconda issata sul monte Suribachi e non la prima; e che per anni si son fatti sei nomi di sei soldati, uno dei quali sbagliato, perché issò quella precedente. In seguito smonta tutta la “baracca”, che il protagonista indiano, l’attore Adam Beach, da Oscar!, chiama più volte “pagliacciata”, con cui il governo ha voluto sfruttare l’immagine dei tre eroi per cercare i soldi agli americani per finire la guerra. I loro tormenti, i loro orrori e i loro incubi non hanno saputo frenare questa macchina disumana che in nome di un eroismo posticcio spillava dollari a chiunque. Privati di una vera identità, rinominati “eroi” e dati in pasto a fotografi e cinegiornali, i tre sopravvissuti di Iwo Jima sprofondano nel loro delirio. Rifiutano di essere chiamati eroi, e sanno di non aver combattuto per la patria, ma solo per i loro compagni. Altri ragazzi che come loro erano là, a combattere una guerra voluta da altri, a morire lontani da casa solo per il prestigio di qualche pazzo.
É a tratti un western, e a tratti un horror splatter. Con i suoi colori denaturati, il commento musicale mai ingombrante, il montaggio serrato e lirico in tempi diversi, e quell’umanesimo pacifista che avvolge tutta quella landa nera e desolata, il film di Clint Eastwood esce dal panorama becero e retorico della propaganda militare americana. Fa il paio con “Gunny”, dove già Eastwood aveva dato il suo primo colpo al fragile vaso del militarismo a stelle e strisce. Privo di retorica, “Flags” squote te spettatore fino nelle viscere, le stesse che penzolano fuori dai corpi devastati dalle granate. Ti squote perché vuole farti vedere la guerra così com’è, spurgata di quelle stronzate con cui drogano i ragazzi fin da bambini, sull’onore della patria, sui cattivi che ci minacciano il mondo. Il vecchio Clint assomiglia allo scapigliato Tarchetti che con “Una Nobile Follia” non salva nulla della guerra, come invece avevano fatto i grandi autori dell’800. Anche al cinema, seppur condannando la guerra, molti film hanno sempre evidenziato e salvato l’eroismo, il sacrificio, l’onore, il patriottismo, dando così una bieca e cieca giustificazione a l’atto orribile della guerra. Una legittimazione che si scorna con il puritanesimo americano: niente sesso, ma se puoi spara e uccidi. No, Clint Eastwood no. Lui non ci sta, e benchè manchi la sua fisicità mitica, lo troviamo presente nell’amore per i suoi personaggi, per le loro storie, per le persone a loro vicini. È presente con il suo sguardo, semplice e asciutto. È presente con il suo umanesimo, con tutta la sua passione per i veri eroi, quelli anti, quelli contro. Se in “Million Dollar Baby” provocava con l’eutanasia, in “Flags” Clint denuncia una Nazione intera. I suoi sono antieroi, consumati dal sistema, dall’alcolismo, dai rimorsi. Per questo muoriranno. Muriranno sì, ma non prima di aver detto al mondo, che tu spettatore hai il dovere di odiare la guerra e tutto il sottobosco militare fatto di ipocrisie, menzogne e violenza culturale.

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