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Inferno

Regia di Dario Argento vedi scheda film

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La recensione su Inferno

di scapigliato
8 stelle

Dopo “Suspiria” e la sua perfida Madre, la Suspiriorum, Argento prosegue l’ipotetica trilogia delle Tre Madri con la madre di tutte, la Tenebrarum che è la riunificazione della macabra triade. É ambientato a New York, dove stando al libro di un certo architetto Varelli si annida la Madre Tenebrarum, con scene anche Romane, o meglio quasi tutto il lungo incipit. Già dal suo avvio Argento gioca con i personaggi e ci nasconde chi di loro è il vero protagonista. Crediamo che Rose, la ragazza che apre il film, sia la prima a morire, ma poi vediamo che che rimane in vita e la crediamo quindi la protagonista. L’azione si sposta a Roma e crediamo che il di lei fratello Mark e la ragazza con cui pensiamo se la intenta, ovvero Eleonora Giorgi, siano gli altri due protagonisti. In parte sarà così, ma fino alla prima metà del film succede di tutto e il regista perpetua nel suo sadico illusionismo di spiazzare l’occhio (e lo sgurdo) dello spettatore, coinvolgendo pure due nomi di punta come Gabriele Lavia e Daria Nicolodi. Più avanti, a giochi già fatti, vediamo che le altre inquietanti presenze del film vengono coinvolte in questo gioco onnipotentista dell’autore, come le caratterizzazioni di Alida Valli e di Leopoldo Mastelloni.
Tecnicamente il film è considerato tra i capolavori argentiani per via della dichiarata attenzione alla componente visiva piuttosto che a quella narrativa. La trama abbozzata passa in secondo piano davanti alla vanificazione onirica, al gioco barocco del filmico e del pro-filmico, al montaggio parallelo che anticipa l’estetica videoclip ed amplifica il concetto teorico del fotogramma come unica unità reale all’interno di una mattanza visionaria. Potere dell’immagine e della sua filosofia come dimensione “altra”, non di questo mondo, ma di quello che sta sotto, il più giù possibile, sotto le nostre scarpe. Un mondo ovattato, sordo, embrionale come quello incontrato da Rose in apertura del film quando si cala in un pozzo sotterraneo per recuperare le chiavi.
Luci baviane che diventano argentiane nella loro esasperazione. Interni dall’architettura alienante, stilizzati come nel precedente “Suspiria”. L’ambivalenza dello sguardo davanti al mondo stregonesco del nostro inconscio, del boogey-man che sappiamo nascondersi sotto il letto. Il fallimento dello sguardo stesso nel momento crediamo che ciò che percepiamo sia l’unica verità possibile, ma non è. “Inferno” segna così il climax più alto di un periodo argentiano volto alla rappresentazione filmica della propria autorialità. In seguito arriveranno pellicole capaci solo di confermarci la grandezza della poetica argentiana senza però toccare i picchi delle opere precedenti.

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